domenica 30 marzo 2014

FUGGE ANCHE DALLA PIANA IL 27,1 % DEI GIOVANI LAUREATI....!

di Bruno Demasi
   La Piana stretta in un groviglio di perversione politica e faccendiera che non ha forse uguali in questo  secondo dopoguerra...         
   Certo, non è l'articolo migliore in assoluto , questo di Enrico Fierro, ma, con i tempi che corrono è senza dubbio il più sintetico e veritiero...e lo faccio mio.
     <<Reggio Calabria è alla bancarotta ed è commissariata per mafia, la Regione ha un altissimo numero di consiglieri inquisiti, tre li hanno arrestati. E la Calabria affonda nella miseria. Da queste terre si scappa. Fugge il 27,1 per cento dei giovani laureati, i padri di famiglia caricano le loro moderne valigie di cartone su pullman che li portano al nord o in Germania…la regione è devastata “ dalla peggiore classe politica dell’Occidente”…come dice l’antropologo e scrittore Francesco Mario Minervino. Il clientelismo miserabile di Catanzaro, con il contorno dell’assessore puttaniere a sbafo, ha fatto ridere l’Italia. A Cosenza ha invece tenuto banco l’attacco dei pasdaran del senatore Gentile a un quotidiano perché non pubblicasse una notizia. “La Calabria è il laboratorio politico di tutti i mali italiani” è il giudizio di Minervino. “Parlo con la gente, con gli studenti, con quelli che partono schifati e vedo la speranza morire. Ora siamo all’ultima spiaggia o si abbatte questo sistema dei partiti, oppure è finita. Qui c’è un consociativismo asfissiante che è orizzontale e verticale. Cazzi miei, cazzi tuoi, questa è la regola.” Chi sarà il prossimo re della Calabria, l’uomo che prenderà il posto di Peppe Scopelliti dj? Nel centrodestra scalpitano i cosentini Gentile, Pino, Tonino, il fratello senatore, Katia la nipote ex vicesindaco della città e tutta la sterminata family, lo appoggeranno. Gongola il centrosinistra per il ras azzoppato. E fa male. Archiviata con disonore la voce
di un Nicola Gratteri candidato (il magistrato ha respinto con sdegno i rumors diffusi dai renziani) prevalgono gli appetiti. Demetrio Naccari Carlizzi, l’uomo che con le sue denunce ha dato il via al processo Fallara ha annunciato la sua candidatura , ma è azzoppato. Un’inchiesta sulla sanità reggina lo vede al centro dello scandalo per la promozione della moglie in un ruolo dirigenziale. “Il posto è mio e lo devo vincere”, dice la signora in un’intercettazione. Sandro Principe, re di Rende è ormai impresentabile. Infastidito dal tono di alcuni articoli sputò (si, sputò proprio) in faccia ad Antonio Ricchio cronista politico del Corriere della Calabria. E allora annuncia di scendere in campo lui, Mario Oliverio, già deputato, già consigliere regionale, oggi presidente della provincia di Cosenza. Il dopo Scopelliti è già iniziato, Il lupo trasformista e trasversale che ha divorato la Calabria è già all’opera. (Il Fatto Q. “Decaduto e candidato..." sabato, 29.3.2014).>>

venerdì 28 marzo 2014

LE AGROMAFIE NELLA PIANA DI GIORIA TAURO: LA DENUNCIA DI QUALCHE ASSOCIAZIONE , MA NON DEI POLITICI ...E NEMMENO DELLA GENTE DI CHIESA...


di Bruno Demasi
Un fenomeno vergognoso quello delle agromafie nella Piana, strettamente connesso nella sua complessità con i trusts oscuri che impongono  prezzi agli agrumi ridicoli e prezzi al lavoro (prevalentemente nero) altrettanto scandalosi. Tacciono i pulpiti dei  politici nostrani e regionali, tacciono i pulpiti  di quasi tutte le  organizzazioni sindacali e di tante associazioni, tacciono più che mai i pulpiti di quasi tutte le chiese della Piana anche in quello che dovrebbe essere l"Anno della Carità".  Ne parla però coraggiosamente RADIOVATICANA, evidentemente “contagiata” dalla chiarezza di Papa Francesco, in questo servizio che voglio qui  riprendere integralmente:
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   A quattro anni dalla rivolta dei braccianti a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro la situazione di sfruttamento dei migranti occupati nella raccolta
agrumicola non è cambiata. È quanto denunciato oggi alla Camera dei deputati dall’Associazione Medici per i diritti umani e da “Sos Rosarno”, che chiedono al governo il potenziamento dei fondi per l’accoglienza stagionale
Vivono nelle tendopoli installate dal Ministero dell’interno o nei casolari abbandonati, spesso senza acqua ed elettricità.
    Sono circa 2.000 i braccianti stranieri impiegati in "nero" per la raccolta
degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro. Provenienti per lo più dall’Africa subsahariana, lavorano 8 ore al giorno per una paga di 25 euro. Due su tre hanno un permesso di soggiorno e quasi uno su due è rifugiato politico. La stagione agrumicola è ormai alla fine e manca il piano di accoglienza del governo per l’anno prossimo. Dopo la rivolta di Rosarno nel 2010, in Calabria le agromafie continuano a sfruttare i migranti e i piccoli agricoltori. Lamine Bodian, ex bracciante e oggi mediatore culturale dell’associazione “Sos Rosarno” osserva:"Va di male in peggio, non c’è nessun cambiamento dal giorno della rivolta fino a oggi. Però, ci sono alcune persone che stanno cercando un’alternativa per poter uscire da questi disagi. Io faccio parte di un’associazione che si chiama “Sos Rosarno”: lavoratori e braccianti, ma
anche i piccoli agricoltori, stanno cercando una strada giusta, perché anche i piccoli agricoltori possano riuscire a vendere i loro prodotti ad un giusto prezzo, grazie anche alla collaborazione di gruppi di acquisto solidale sparsi in Italia".
     L’Associazione Medici per i diritti umani, che a Gioia Tauro ha un presidio, ha realizzato un’indagine sullo stato sociosanitario di circa 150 braccianti, riscontrando che la maggior parte delle malattie diagnosticate è legata alle pessime condizioni abitative, igienico-sanitarie e alle durissime condizioni di lavoro. Lavoro che sfrutta e sottopaga i migranti e che invece ingrassa il volume d’affari delle agromafie.
Ma quante sono le Rosarno d’Italia? Stefano Masini, responsabile Ambiente, Territorio e Consumi della Coldiretti dichiara:

“ Sono numerose. Il 20% dell’occupazione dell’agricoltura è appunto legato all’impegno dei lavoratori immigrati. Oltre a Gioia Tauro, in Abruzzo gran parte dei pastori impegnati negli allevamenti zootecnici sono macedoni. Lo stesso accade per il Parmigiano Reggiano - prodotto tipico del nostro made in Italy - che è legato all’impegno di lavoratori indiani, uno su tre addetti alle stalle è appunto di nazionalità indiana. Inoltre, negli alpeggi della Val d’Aosta operano circa 300 persone, in prevalenza lavoratori esteri.”
    Il volume d’affari delle agro mafie? Nell’ultimo censimento che Coldiretti
ed Eurispes hanno realizzato, sono 14 miliardi e mezzo gli euro legati ad attività tradizionali - in particolare di estorsione - ma anche a investimenti in nuove attività produttive di reddito e in particolare alla catena alimentare, che oggi rappresenta un importante segmento, in grado anche di riciclare denaro sporco.(Radiovaticana, martedi,25 marzo 2014)

martedì 18 marzo 2014

BARLAAM E LA GRANDE CULTURA GRECA NELLA PIANA

    Su Barlaam, come su altri grandi esponenti  della  splendida cultura greca  trapiantata su queste terre anche in epoca bizantina, sono state scritte e rimasticate  molte cose, e non sempre a proposito. Mi sembra dunque doveroso, oltre che avvincente, ritornare , con la guida meticolosa di Michele Scozzarra e  con calma e attenzione, su uno studio molto documentato, obiettivo e razionalmente critico pubblicato dallo studioso Domenico Mandaglio, nel quale la figura di questo pilastro portante, e non solo della nostra cultura, viene restituita alla sua dimensione storica e culturale più genuina (B.D.)

di Michele Scozzarra
       Una testimonianza concreta e avvincente, da quel capitale prezioso quanto inesplorato, che si chiama “medioevo” che, oggi più che mai, domanda di essere ri-conosciuto per poter ri-scoprire, nei giorni nostri, una unità di valori, una comunione di intenzioni e di identità, ci è stata  presentata con la pubblicazione di uno studio efficacissimo su Barlaam,effettuato da  Domenico Mandaglio, concepito come un’opera di sintesi delle copiose ricerche che l’Autore ha condotto su Bernardo Massari, meglio noto come Barlaam di Seminara, e come una introduzione appassionante a tutta l’epoca medievale.
    Il libro ha un preciso taglio: è centrato sulle tensioni spirituali e intellettuali, in un preciso periodo circoscritto al secolo XII, soprattutto quando “Barlaam di Seminara, conosciuto come primo vescovo di Gerace e maestro di greco di Petrarca e Boccaccio, ha legato il suo nome alla appassionata campagna unionista portata avanti per anni, con l’obiettivo di giungere alla unificazione della Chiesa di Oriente a quella d’Occidente”.
    Non a torto si possono intravvedere, nella lettura del libro di Mimmo Mandaglio, dei punti essenziali sui quali l’Autore si è particolarmente soffermato che consentono una comprensione storicamente più “realistica” dell’intera vicenda culturale del Medioevo, di cui il secolo in cui ha vissuto Barlaam rappresenta il “cuore” per andare al fondo della questione: con questo libro l’Autore ha dimostrato la capacità di ri-tornare (o di ri-dire, tanto per andare ad una citazione a lui cara!) al “cuore” del pensiero di Barlaam, libero da preoccupazioni apologetiche, da nostalgie strumentali o da imposizioni di mode culturali che vogliono vedere il Medioevo solo con l’etichetta ormai stereotipata di “secoli bui”, ed ha contribuito a portare un approfondimento antropologico e ontologico di vitale importanza per l’uomo dei nostri giorni, che ancora ha il coraggio di interrogare a fondo la realtà della storia quotidiana che vive.
     C’è un complesso di ragioni che mi fa apprezzare l’importante opera del
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Mandaglio su Barlaam, dove oltre alla conoscenza di un monaco famoso per le sue conoscenze in tutti i rami del sapere, al quale non a caso fu affidata una cattedra all’Università di Costantinopoli, l’Autore dimostra una approfondita conoscenza del pensiero medievale, dei suoi valori e di tutto un contributo e un apporto spirituale e culturale che si presenta, nel Medioevo così come ai nostri giorni, come una testimonianza concreta ed avvincente che ha saputo dare un incremento notevole alla civiltà nella quale viviamo. Una cosa che mi ha particolarmente affascinato, durante la lettura del libro, è l’indagine che partendo dal monachesimo va ad approfondire altri aspetti della civiltà medievale, alla ricerca di dati obiettivi che si contrappongono a tutti quei luoghi comuni stereotipati che presentano il Medioevo come “il tempo dei secoli bui”. Sotto questo profilo, l’Autore svolge un accurato, quanto appassionato, studio che contribuisce a far mutare radicalmente il concetto che in tanti, talvolta in maniera inconsapevole, sostengono che “Medioevo” è sinonimo di epoca di ignoranza, di abbrutimento, di sottosviluppo.
Nelle pagine del libro si vede, anzi si tocca con mano, la cultura monastica nella quale si è formato Barlaam, in esso è raccontata proprio una visione del monachesimo improntata all’amore della cultura e al desiderio di Dio: questa è l’essenza della cultura monastica assimilata, e poi trasmessa, da Barlaam nel suo peregrinare nei tanti monasteri e conventi che ha avuto modo di frequentare nella sua vita, compreso il Convento di sant’Elia di Galatro, dove ha compiuto i suoi studi presbiterali con i monaci greco-bizantini.
     Attraverso lo studio, il lavoro e la cultura di monaci come Barlaam, dal Medioevo chi è stato tramandato un grande patrimonio di civiltà e anche delle grandi testimonianze di fede: si è sempre sostenuto, infatti, che i monaci, anche se non parlavano, predicavano, perché offrivano l’esempio di una vita in pace con Dio, di fronte a momenti di grandi turbamenti, di guerre, di contrasti, di cui pure il medioevo fu pieno.
     Parlando con Mimmo Mandaglio, ho voluto porre delle domande, per capire meglio questo suo impegno che lo ha portato alla pubblicazione di questo bel volume su Barlaam.

  
   Perché hai voluto impegnarti in un libro proprio su Barlaam?
     Ho letto tanto su Barlaam, ma ti posso assicurare che non ho mai trovato un libro completo, organico, sistematico in grado di fare luce e spiegare bene chi era questo grande figlio della nostra terra. Per questo mi sono messo al lavoro, raccogliendo articoli, accenni, conferenze fatti da persone che, nel corso degli anni passati, avevano cercato di trattare la figura di Barlaam. Ho raccolto tanto materiale e, dopo averlo approfondito con ulteriori e più attenti studi, ho capito che potevo mettermi all’opera per far conoscere, in un lavoro sistematico e completo, una fisionomia sconosciuta di Barlaam. Ho cercato di esplorare tutti gli aspetti dalla sua grande cultura, a cominciare dall’ambiente monastico nel quale ha vissuto, e mi sono potuto rendere conto che l'ambiente monastico di fine Medioevo in Calabria era degno dei più grandi centri culturali d'Italia. Noi siamo abituati di ripetere quello che ci hanno insegnato, canonicamente, a scuola, cioè che le città toscane o umbre sono state la culla di tutta una civiltà che attraverso l’impegno e cultura dei monaci ha lasciato un forte segno all’ambiente. Ecco, io penso che, per quanto ci riguarda, anche se si è approfondito poco questo periodo, e la Calabria è stata vista solo come punto di passaggio per la Sicilia o il Nord d'Italia, secondo me, invece, la nostra terra era un posto saturo di sapienza sia sotto l’aspetto linguistico (lo studio del greco innanzitutto), sia per i numerosissimi monasteri basiliani che erano punti di divulgazione di grande cultura. Ecco, nel mio libro, mi sono adoperato a rappresentare questo'ambiente sociale, storico, politico e culturale, perché ritengo che la Calabria abbia rappresentato per tante persone un punto di passaggio, ma per i greci fu un punto di arrivo.
     Il nome di Barlaam è legato soprattutto al suo impegno per l’unione della

Chiesa orientale con quella occidentale: Barlaam, a mio avviso, è stato grande per la sua oculatezza ad impegnarsi per l'unione della Chiesa di Oriente a quella d’Occidente, tanto da dedicare la sua vita a questo importante compito, cercando di percorrere tutte le strade diplomatiche, in vista della fondamentale importanza dell'Unione dei cristiani. Tutto questo per vari motivi: per motivi politici, religiosi, capaci di dirimere le discordie tra cristiani, dovute più a inezie che a motivi realmente seri. Da buon calabrese cocciuto, Vere calaber, lottò fino alla fine con l'arma della sapienza e dell’intelligenza ma, soprattutto, con l’arma del buon senso, mettendo a tacere orgoglio e superbia pur di raggiungere il vero scopo a cui tendeva il suo impegno. Ho voluto esporre nel libro le sue opere che servirono per le lezioni all'università in Grecia, le sue invettive che erano più di difesa o di giustificazione e, infine, ho esposto i suoi interventi di fronte al Papa, finalizzati a convincerlo ad andare in aiuto ai fratelli greci. Su questi temi Barlaam intervenne dicendo cose grandi dal punto di vista teologico ma, soprattutto, ha preveduto con molto acume quello che poteva succedere in Oriente, cioè una catastrofe culturale, religiosa e politica con enormi martiri... Così come successe, in seguito, con le invasioni turche.

Un bel libro su un grande calabrese… come mai pubblicato a Ravenna?
 
      Ho voluto fare un glossario per esprimere al meglio il linguaggio usato, cosa che per me è molto importante. Il professore Enrico Morini dell'Università di Bologna, che è uno dei più grandi esperti di storia romea, è stato entusiasta del mio lavoro, così anche Mario Agostinelli professore di filosofia a Ravenna. Il libro l'ha voluto pubblicare Claudio Nanni di Ravenna perché Ravenna fu la culla della cultura bizantina in Italia. Queste tre queste persone che ho appena citato, sono di una sensibilità culturale veramente molto grande, con una umanità enorme, ed io li voglio ringraziare veramente tanto. Questi sono i veri motivi per cui ho scritto questo libro, cioè il volere dedicare la mia attenzione su qualcosa di cui vale la pena scrivere, evitando di andare dietro alle pubblicazioni che oggi vanno di moda o che portano soldi. A me, sinceramente, interessa la cultura, non i soldi.


    Complimenti Mimmo per il bel libro… in mezzo a tanta crisi di valori, il
compito degli studiosi seri è quello di riuscire, nel buio della crisi che ci pervade da più parti, a fare continuare a splendere una luce, magari una piccola luce come quella di un accendino, ma sicuramente diversa dall’oscurità che cerca di avvolgerci. E la tua opera contribuisce a portare una piccola luce già sperimentata, esattamente come quella che brillava nei monasteri, dove uomini normali mostrarono possibile la stabilità di un mondo travolto da irrefrenabili migrazioni, mostrarono la fraternità in mezzo alla violenza, la costruttività alternativa al crollo di tutto.
E, ti assicuro che poco importa se i professionisti della politica diranno che è un’illusione e gli intellettuali che è un’ingenuità. Resta il fatto che quei monaci hanno costruito, senza neppure pensarci, una civiltà.
      E a te, con il tuo libro, va il merito di continuare a rendere quella luce ancora viva nei nostri giorni…

sabato 15 marzo 2014

IL CIAO COMMOSSO DI TUTTA LA PIANA A DOMENICO

DOMENICO PRESTIA POCHE ORE PRIMA DI MORIRE SPOSA L'AMATA
SABRINA : STORIA DI UN AMORE CHE SFIDA LA MORTE
                                                                           
                                                di Enza Dell'Acqua

    Nella Piana dai mille veleni e dalle mille noncuranze  fioriscono anche storie struggenti come questa di Domenico e Sabrina, che ormai sentiamo tutti "nostri", testimoni di una forza e di un coraggio, senza i quali sarebbe quasi impossibile andare avanti, testimoni della voglia di famiglia che è più tenace delle mode effimere che sembrano intridere anche i nostri giovani.

      Ieri pomeriggio San Calogero si è fermata. Ammutolita e attonita ha accompagnato nel suo ultimo viaggio Domenico Prestia, stroncato dalla leucemia a soli 29 anni. Negozi chiusi, saracinesche abbassate, mentre una tristezza imperante aleggiava per le strade del paese. Un’intera comunità ha partecipato ai funerali di un giovane che si affacciava alla vita. Ha tentato di lenire il dolore inconsolabile dei famigliari e della neo moglie. La cerimonia funebre è stata officiata dal parroco don Antonio Farina, che solo due giorni prima aveva unito in matrimonio Domenico e il suo grande amore, Sabrina Monteleone.
       La storia che vi raccontiamo oggi sembra tratta da un romanzo d’amore ottocentesco, uno di quei romanzi in cui eros e thanatos si intrecciano in un binomio indissolubile. In cui l’amore sfida la morte, e pone il suo sigillo di immortalità su un legame profondo che non si arrende alle oscure logiche di un destino incomprensibile e crudele.
      Domenico e Sabrina hanno vissuto pienamente il senso della parola amore, che, nel suo significato etimologico, significa “senza morte”. Quell’amore vero che sopravvive alla morte, con la sua forza e la sua tenacia.
Raccontare la loro storia è come incontrare la musa ispiratrice di quei romanzieri che raccontano tragiche storie d’amore. E infatti questa vicenda sembra uscita dalla penna dannata e struggente di Emily Bronte, autrice di
Cime tempestose (romanzo d’amore e di morte, ormai consacrato all’immaginario collettivo di intere generazioni). Ma questa storia non è affatto un romanzo, è un dramma vero, con protagonisti autentici in carne ed ossa, con dei familiari annichiliti dal dolore, con un comunità (quella sancalogerese) che assiste in lacrime a una tragedia venata di accenti di vera poesia; ma è soprattutto la storia di Domenico e Sabrina.
        Una storia nata tra i banchi di scuola. Cresciuta tra le speranze e i sogni della gioventù. La passione, i progetti e gli studi universitari, all’insegna di un sogno d’amore, da coronare con il matrimonio. Tre anni fa, però, nella loro vita di fidanzatini felici prorompe la malattia. L’amore, il futuro, i sogni hanno dovuto fare i conti con una grande incognita. Domenico scopre infatti di avere la leucemia, male subdolo e tenace, che a San Calogero ha già mietuto diverse vittime. Ma Domenico, non si dà per sconfitto. Munito dalla sua forza di volontà e dalla voglia di vivere, sorretto soprattutto dall’amore profondo della sua Sabrina, combatte contro il temibile male. Si laurea in ingegneria, dà gli ultimi cinque esami che lo separano dalla laurea.
       Le malattia però  continua a  fare il suo  malefico corso, fino   a togliergli
lentamente le forze. Frequenti negli ultimi tempi i ricoveri presso l’ospedale di Reggio Calabria. Sabrina, i suoi famigliari, gli amici non lo hanno mai lasciato solo. Ma Domenico sa bene che sta perdendo la battaglia più cruenta della sua vita. Affronta gli ultimi mesi del suo viaggio terreno con incredibile coraggio. L’11 marzo ha compiuto 29 anni. L’ultimo compleanno di Domenico si vena di un indissolubile miscuglio di struggente dolore e di poesia, sotto l’egida dell’amore. E proprio Sabrina fa il regalo più grande a Domenico: gli chiede di sposarla; di unirsi in matrimonio, nonostante il triste epilogo che da lì a poco segnerà la loro storia d’amore. I due ragazzi si sposano in ospedale. Alla cerimonia religiosa assisteranno i parenti e gli amici intimi. Il sacerdote benedice l’unione di due ragazzi che si amano. Anche se dovranno separarsi fisicamente, sono certi che le loro anime resteranno per sempre unite e che il loro amore non avrà mai fine.
     Dopo poche ore Domenico si spegnerà.
     Prima di morire, fa in  tempo a chiedere alla madre   afflitta    di salutargli
tutti gli amici  e i compaesani.  Vuole congedarsi dal mondo    regalando    un
pensiero e un gesto d’affetto a quanti lo conoscevano e hanno sempre fatto il tifo per lui. Fa in tempo a regalare l’ultimo saluto alla sua amata Sabrina, neo sposa. A lei chiede di poter ascoltare ancora una volta la sua canzone preferita, “Fallow me”. Canzone che echeggerà durante i funerali, e le cui parole sono un vero e proprio testamento d’amore di Domenico per la sua sposa: “ti proteggerò sempre amore, senti il mio amore…”.
       Una folla immensa ha accompagnato Domenico al cimitero. In un silenzio
irreale, in una compostezza e in un dolore collettivo incolmabile: perché una comunità ha perso un bravo ragazzo, una bella speranza, un giovane dal futuro ingiustamente rubato dalle trame di un destino indecifrabile.

mercoledì 12 marzo 2014

E' TEMPO DI "QUOTE ROSA" O DI "FAMIGLIA" NELLA CULTURA DELLA PIANA?

            di Umberto Di Stilo
    
    In tempi in cui nel Parlamento e nei luoghi del potere  si litiga violentemente   sulle rappresentanze maschili e femminili da calcolare all'interno delle istituzioni, la Piana non si accalora più di tanto: i nostri problemi veri infatti non riguardano i bilancini con cui dosare le "quote", ma la sopravvivenza della " Famiglia", violentemente fustigata dalla crisi economica e da secoli di povertà , spesso decimata  ancora oggi dall'emigrazione di ritorno, quasi sempre bistrattata perchè usata,  nel suo nome, come sinonimo di  aggregazione ndranghetistica, mai supportata dalle istituzioni, preda di un Fisco sempere più esoso, marginalmente considerata dalla cultura dominante, che oggi tende a disgregarla piuttosto che a preservarla, e dalle stesse aggregazioni ecclesiali che sembrano ricordarsene solo in determinate "giornate" e non
riescono ad incidere più di tanto nel tessuto familiare vero e a tutti i livelli.
  

  Eppure... la Famiglia dalle nostre parti, nella nostra cultura, non  solo sopravvive, ma continua a vivere tenacemente  la sua grande storia, che è storia del nostro essere sociale, della nostra stessa civiltà, come spiega e documenta  Umberto di Stilo, che ringrazio,  in questa ricca pagina tratta dal suo libro 'U ventu sparti" - Edizioni ACRE, Mongiana, 1995 - . (Bruno Demasi)
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Nella società contadina la famiglia tendeva ad organizzarsi come una unità produttiva, sia esterna  - quando i suoi componenti provvedevano a portare i prodotti della campagna al mercato -  sia interna - quando i suoi componenti si dedicavano alla preparazione dei cibi, alla tessitura ed alla preparazione della “dote” da dare alle figlie, ai lavori domestici -.
Questa era la famiglia patriarcale nella quale i poteri, in maniera gerarchica, erano accentrati dal vecchio paterfamilias che sovraintendeva a tutte le attività e curava la distribuzione dei ruoli e dei compiti. Condizione indispensabile perché una famiglia prendesse forma e consistenza, oltre ai due coniugi, era il domicilio. Cioè la casa, il “loco”.[1] E, soprattutto nella società contadina,  il termine “loco”, nella parlata popolare calabrese, per parecchio tempo,  è stato sinonimo di famiglia. Infatti, quando veniva affermato che cu’ non’avi focu non avi locu si voleva intendere che non può assaporare i piaceri della casa e dell’affetto chi non hafamiglia.
Il significato del proverbio non cambia se, come in diversi paesi avviene sovente, vengono invertiti i termini “focu” e “locu”. Infatti c’è pure  chi ricorda che cu’ non’avi locu  non’avi focu. In questo caso è il termine “focu”, cioè il “fuoco”,  che assume il significato di famiglia. A tal proposito è il caso di ricordare  che per molti secoli proprio il termine “fuoco” fu sinonimo di famiglia tanto che nei censimenti  si contavano i “fuochi” (dai quali, volendo, si risaliva al numero degli abitanti) e non, come adesso, le singole persone. L’imposta più diffusa fu proprio quella del “focatico”. [2] In questa seconda versione il proverbio sostiene (e non senza fondamenti di verità) che non ha stabilità  e tranquillità la persona che non ha provveduto a crearsi una famiglia.
Ovviamente il riferimento è agli uomini giacché in una società maschilista come quella contadina, la donna viveva una condizione di totale subalternità e non ha mai avuto potere decisionale, né prima né dopo il matrimonio che, quasi sempre, non costituiva una sua libera scelta, ma le era imposto dai genitori [3] che, non di rado, sceglievano il “marito” da dare alla figlia quando questa era ancora in fasce o, comunque, ancora bambina. Il matrimonio non era, pertanto, l’espressione di una libera scelta, ma una imposizione paterna, frutto di calcoli di opportunità finalizzati  più che all’ampliamento della parentela al consolidamento ed all’accrescimento dei beni immobili familiari, del patrimonio, o della “robba”.
Forse anche per questo il proverbio sottolineava che maritu e figghi  comu Ddiu ti manda ti li pigghi. Sicché ogni giovane donna, anche se in cuor
suo era contraria al matrimonio, non poteva opporsi alla volontà dei genitori.  E andava a nozze perché sin da bambina le avevano ripetuto che a fimmana senza statu  è com’ ‘u pani senza levatu. Assai discutibile preconcetto che aveva, come esatto contrario,  un altro proverbio col quale, nella spicciola cultura popolare, faceva il paio con a fimmana maritata   è di tutti rispettata (Galatro). E, quasi a completare quello che era un vero e proprio lavaggio del cervello, contribuiva anche il proverbio col quale si affermava che  ‘a fimmana maritata è misa all’onuri du’ mundu  (Galatro),dal momento che col matrimonio la donna si integrava nella collettività ed acquistava quella dignità e quella indipendenza che non le erano riconosciute da nubile, quando il solo fatto di essere signorina (e, quindi, “figlia di famiglia”) la abbassava al rango di parassita.
Da sposata una donna faceva conoscere le proprie capacità e, collaborando col marito nella conduzione amministrativa della famiglia, non di rado, riusciva a mettere in luce quelle qualità che le facevano guadagnare stima ed ammirazione da parte della famiglia e, soprattutto, anche da parte della comunità.Ciononostante, la moglie, per un atavico principio che attribuiva all’uomo ogni  autorità ed ogni potere decisionale, era destinata a vivere appartata, all’ombra del marito,  intenta solo ad allevare i figli, e solo raramente le veniva consentito di  presenziare alle discussioni che, per motivi di affari o di lavoro, gli uomini della famiglia avevano con amici e conoscenti. Soltanto alle donne appartenenti a famiglie delle classi meno abbienti  era consentito sedere a tavola insieme al marito, quando in casa erano presenti ospiti forestieri.[4]  
La contadina calabrese aveva solo doveri. I diritti erano concessi tutti all’uomo. Era costretta, dunque, a vivere sottomessa ed oppressa dal marito che, menando vanto dell’obbedienza totale della moglie, per incapace che fosse,  con un malcelato pizzico d’orgoglio sosteneva  cu’ nuju pozzu  cu’ mugghierima pozzu oppure   a nuju pozzu a mugghierima’a pozzu.E la massima, nell’uno e nell’altro caso, testimonia e documenta l’esagerato  concetto di obbedienza che gli uomini della civiltà contadina pretendevano dalle loro mogli.Nella famiglia rurale, pertanto,  dettava legge  l’uomo, il capofamiglia, per cui era considerata sfortunata la casa in cui anche la donna avesse diritto di parola ed esprimesse liberamente il suo pensiero. Si diceva, infatti  amara chija casa  aundi canta ‘a gajina. E la donna quando aveva diritto di parola? Praticamente mai, a dar credito alla massima secondo cui ‘a fimmana avi a parlari quandu piscia ‘u gaju. Ma, come in tutte le cose, siamo all’iperbole giacché nei momenti più delicati della vita familiare, proprio i suggerimenti delle donne, quasi sempre, risultavano i più saggi ed i più ponderati e consentivano di giungere alla sospirata soluzione dei problemi.
Certo è, comunque, che il capofamiglia dei proverbi è burbero, è duro, è  “padrone” e, come tale, pretende la cieca obbedienza da parte di tutti i figli, anche quando questi hanno raggiunto la maggiore età e, magari, hanno già aperto una famiglia propria. Ma, nella famiglia patriarcale, nessuno si sognava di discutere e di mettere in dubbio l’autorità paterna. Dunque nella sua stringatezza è assai chiaro il proverbio che ci ricorda che ai quei tempi il genitore era un vero padre padrone e che, come tale, doveva essere riverito e ossequiato.
La presenza dell’uomo-capo famiglia dava sicurezza e tranquillità alla casa e
la nobilitava, più di qualsiasi blasone. Si diceva, infatti, che la  casa chi non avi omu  non avi nomu oppure: casa senza omu,  casa senza nomu. Il casato prendeva il nome  dell’uomo. Per questo c’era chi ricordava che l’omu avi ‘u nomi. All’uomo, però, venivano riconosciute anche altre doti. In effetti oltre a provvedere al necessario per assicurare la tranquillità economica alla famiglia ed a tramandare il nome del casato  mediante gli eredi,  l’uomo conferiva  dignità alla famiglia dimostrando dedizione al lavoro e tenendo un  esemplare comportamento sia  in casa che in seno alla comunità.
                                             (Umberto Di Stilo).
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(1) Nell’antichità classica  il “locus “ (come domicilio domestico) era considerato sacro. Non manca chi, estensivamente, per loco  intende anche “paese”. Il detto  “cui muta locu, muta ventura ”, infatti, a Galatro è ancora usato nel significato di  “chi cambia paese cambia condizione”.
(2) Per moltissimi anni, l’imposta famiglia si chiamò “focatico”  (dal latino medievale  “focàticum “). Mediamente, ogni fuoco corrispondeva ad una famiglia composta da cinque persone.
(3) Volendo approfondire questi aspetti, Vedi: U.  Di Stilo: Le stagioni della vita , Mongiana, 1994, pag. 59 - 90.
(4) Vedi: Galanti: Della descrizione geografica e politica della Sicilia - vol.  2°- (a cura di Assante e De Marco), Napoli, 1969, pag 243.