sabato 28 giugno 2014

IL TRASBORDO DEI VELENI A GIOIA TAURO


di Bruno Demasi
    Sembra una definizione di cattivo gusto questo titolo, ma ormai è certo: arriveranno il primo di luglio, nel porto di Gioia Tauro, le armi chimiche di Bashar al Assad che ieri hanno lasciato la Siria. A dieci mesi dalla strage di Ghouta, le armi chimiche arriveranno nel  nostro porto per il trasbordo sulla nave Usa Cape Ray che le distruggerà.
     A criticare fortemente l'operazione, pelosamente e penosamente  giustificata dai politici di Roma e di Catanzaro (ormai tutti peraltro malamente

usciti di scena: da Enrico Letta a Emma Bonino a Giuseppe Scopelliti, ma degnamente sostituiti da un capo del governo che sulla materia è stranamente silente e da un ministro delle Infrastrutture , tale Lupi, che continua a millantare assolute sicurezze...)  è il "Comitato Sos Mediterraneo", che così si esprime: "La conferenza stampa annunciata dal direttore generale dell'Opac Ahmet Üzümcü non lascia spazio ai dubbi; le armi chimiche siriane più pericolose, caricate sul cargo danese Ark Futura, hanno lasciato il porto siriano di Latakia per dirigersi a Gioia Tauro. Qui troverà ad aspettarla la nave americana Cape Ray per iniziare un'operazione di trasbordo assolutamente mai tentata prima, in
prossimità degli insediamenti urbani di San Ferdinando e Gioia Tauro. Come avevamo più volte preannunciato questa scellerata operazione si svolgerà nella più assoluta segretezza e in spregio alla convenzione di Arhus per la quale la trasparenza e il coinvolgimento delle popolazioni nelle questioni ambientali assurgono a valore imprescindibile, confermando pertanto tutti i dubbi sulla natura pacificatrice di questa prima operazione di disarmo".
    Sono attese dunque 569 tonnellate di agenti chimici (delle 1290 tonnellate dell'intero arsenale tra armi, componenti e altro materiale) identificate dal piano Onu-Opac di "priorità 1”, e cioè i più pericolosi. Si tratta principalmente di gas mostarda e sarin, contenuti in 60 container che saranno trasferiti “da nave a nave mediante appositi rotabili" ,nell'arco di 24-48 ore, durante le quali  l'area portuale sarà interdetta a tutte le persone non addette e la sicurezza sarà
garantita da un cordone di oltre 100 agenti di Polizia e Carabinieri, che presidieranno un’area di sicurezza di oltre 1 km quadrato. Ad effettuare materialmente le operazioni di scarico, dalla Ark Futura, e carico, sulla Cape Ray, dei container saranno 30 addetti della società Medcenter Container Terminal, che gestisce il terminal container di Gioia Tauro, che dopo ogni box spostato da una nave all’altra dovranno comunicare al centro di controllo la tipologia di materiale chimico contenuta all’interno. In caso di eventuali fuoriuscite, sulle banchine sono stati sistemati appositi pannelli assorbenti e in prossimità dell’area delle operazioni è stata allestita una stazione di decontaminazione gestita da Vigili del Fuoco e Pronto Intervento.  
    Gli agenti chimici saranno quindi distrutti in acque internazionali, mediante idrolisi a bordo della Cape Ray, equipaggiata con due "field deployable hydrolysis systems" (due sistemi di idrolisi) e sulla quale viaggeranno 35 marine e 64 esperti chimici dell'Army's Edgewood Chemical Biological Center.La Germania smaltirà 370 tonnellate di scorie prodotte dallo stesso procedimento di distruzione eseguito sulla Cape Ray. La Gran Bretagna distruggerà a sua volta altre 150 tonnellate di agenti chimici della categoria più pericolosa sul proprio territorio.
     Oltre all'Italia, che ha fornito il porto di Gioia Tauro, i Paesi più coinvolti nell'operazione marittima e nelle successive fasi di distruzione, con navi, mezzi di terra, personale alla missione congiunta Onu-Opac, sono: Usa, Russia, Gran Bretagna, Finlandia, Danimarca, Norvegia, Germania e Cina.  Il Trust Fund costituito per finanziare l'intera distruzione dell'arsenale chimico di Bashar al Assad ha raccolto finora 12 milioni di euro (altri 20 sono stati promessi) da 17 Paesi più l'Unione europea. L'Italia ha contribuito con 3 milioni di euro.
      Molte, moltissime  le perplessità, sintetizzabili in almeno tre domande che ci lasciano letteralmente  sgomenti:
  •  Era proprio necessario effettuare il trasbordo nel porto di Gioia Tauro o non sarebbe stato più logico caricare direttamente sulla Cape Rey nel porto di origine i veleni da smaltire “ al largo”, e comunque era proprio necessario localizzare a Gioia Tauro questa operazione , per la quale, tra l’altro, il contribuente italiano ha sborsato tre milioni di euro?
  • Come mai tutti gli altri paesi nelle cui acque transiterà la Dark Futura hanno preteso che la parte più pericolosa del carico venisse eliminata da questa nave proprio nel suo “ingresso in Europa”, vale a dire nel porto di Gioia Tauro, e comunque prima che la stessa nave attraccasse nei porti di pertinenza di questi paesi?
  •  Come si può continuare a dire che non esiste pericolo durante il trasbordo a Gioia Tauro se si ammette che è stato necessario allestire in prossimità del luogo delle operazioni un centro di “ decontaminazione”?

giovedì 26 giugno 2014

IL SANGUE E L'ACQUA CHE ANCORA SGORGANO DAL COSTATO DI GESU’


Di Bruno Demasi
   
    









       




      Una delle devozioni più diffuse tra il popolo  della Piana è la devozione al sacro Cuore di Gesù, che culmina domani, venerdi, 27 giugno, nella solennità a Lui  dedicata, che vedrà nella cattedrale/santuario  di Oppido Mamertina, dalle 17,30  un momento corale e al tempo stesso semplicissimo di partecipazione popolare con l’animazione dei “Servi di Cristo Vivo”, l’associazione di diritto Pontificio, fondata da Padre Emiliano Tardif, di cui  proprio quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario della  nascita al cielo.
      Non so quanti parteciperanno presi dal loro combattimento quotidiano contro la crisi economica , contro la noia o  nelle beghe paesane e di quartiere…  e non so nemmeno quanti, leggendo questa nota, non storceranno il naso perché le rappresentazioni correnti , anche iconografiche, di questa tradizione ci presentano  Gesù in una figura – si dice spesso -  mielosa, eterea, impalpabile, che molti in qualche modo rigettano anche all’interno del cd mondo cattolico… E persino noi  , sedicenti cattolici, a volte, preferiamo chiamare Gesù non con questo nome,  il suo vero nome , ma appena appena con il titolo  a Lui attribuito “Il Cristo”, mantenendo quasi  una distanza ideale da una figura da affidare solo alle devozioni degli habituèes a battersi il petto…
  Tutto da rivedere: si tratta di un’icona che non corrisponde  al vero: il vero  Cuore di Gesù, il vero Dio e  vero uomo  che dà la vita per gli altri, non è roba del passato da archiviare tra le pagine patinate dei libri devozionali o da relegare nelle giaculatorie  ripetitive degli anziani. Gesù è vivo, è sempre vivo e il suo cuore è palpitante ancora  nel momento in cui trabocca di Amore per tutti, specialmente per i più poveri tra i poveri, o si gonfia di sdegno  per i mercanti che vorrebbero invadere non solo i palazzi, grandi e piccoli, del potere,  ma  a volte anche i portici e le scalinate del Tempio…
     La Piana di Gioia Tauro nel passato è stata  attenta e sollecita verso questa stupenda devozione che rimanda pari pari al  Vangelo di Giovanni in cui  si legge come venne trafitto il Cuore di Cristo, si osserva  l'uscita da esso del sangue e dell'acqua e il particolarissimo significato simbolico che il quarto evangelista attribuisce al fatto (Gv 19,33-37). E anche nell'Apocalisse Gesù è presentato come un Agnello «ucciso», cioè «trafitto» (5,6; 1,7). A  questa medesima  icona terribile e dolcissima fa riferimento diretto  l'enciclica di Pio XII, Haurietis aquas (Attingerete alle acque) del 15 maggio 1956, troppo presto dimenticata.
     Una  devozione colta che  è diventata popolare dunque, già  contenuta in germe nella Sacra Scrittura, ma approfondita dai santi Padri, dai Dottori della Chiesa e dai grandi mistici medioevali. Una devozione  che  ha avuto un particolare incremento e la sua configurazione odierna in seguito alle apparizioni di Gesù Cristo a santa Margherita Maria Alacoque, nel monastero di Paray-le-Monial, a partire dal 27 dicembre 1673.
     Proprio di questa santa poco conosciuta, appartenente all’ordine delle Suore della Visitazione che vengono ospitate a Taurianova, con gratitudine di tutti i pianigiani, nel bellissimo monastero voluto dalla contessa Ganini, l’unica statua esistente in diocesi si trova appunto nella cattedrale/santuario di Oppido, voluta dal vescovo  mons. Canino, sulla vicenda pastorale e umana del quale  ha pubblicato di recente uno studio  meticoloso ed avvincente l’attuale rettore del santuario, don Letterio Festa.
   Auguriamo alla Piana tutta di riscoprire domani la bellezza e la portata sconvolgente  di questa antica devozione: lo stesso Gesù  torna ancora  a presentare il suo Cuore come fonte di ristoro e di pace: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30).
    Un monito, un invito, un consiglio o  - se volete - solo un suggerimento di cui abbiamo  comunque urgentissimo bisogno!






martedì 24 giugno 2014

C’ERA UNA VOLTA L’OLIVICOLTURA NELLA PIANA

di Bruno Demasi
    Con  la sua orografia armoniosa, caratterizzata dalla presenza  di aree collinari , pedemontane, montane e pianeggianti, con i suoi cultivar di antica e nobile stirpe ( ottobrarica, scialoria/sinopolese), la Piana di Gioia Tauro ha espresso per secoli attività di eccellenza e di guida nell’olivicoltura, e non solo per noi, ma per tutto il bacino del Mediterraneo.
  Le casuali e dissennate politiche UE degli ultimi 30 anni, favorite dall’insipienza dei nostri rappresentanti a Bruxelles (Vd, ad esempio l’onorevole Pittella ancora una volta plurivotato nella recente tornata elettorale più per il suo impressionante  cosmopolitismo espressivo che per la sua effettiva conoscenza degli immani problemi in cui si dibattono i contadini del Sud), le strambe o inesistenti politiche dei governi italici, che hanno letteralmente  mandato in rovina  tutte le aziende agricole del Mezzogiorno, il nulla elevato a sistema nei governi regionali, hanno fatto si che anche l’olivicoltura nella Piana diventasse solo un’espressione nostalgica e null’altro.
   Al problema strettamente politico  si  è combinata in quest’opera di distruzione tutta una serie di concause
che varrebbe la pena studiare anche per gli effetti dirompenti sulla situazione idrogeologica del Territorio.  In effetti  l’abbandono, ormai diffusissimo,  della pratica olivicolturale, non più remunerativa, da parte degli abitanti della Piana  con la conseguente distruzione di moltissimi ettari  di ulivi rasi al suolo per ricavarne appena appena legna da ardere  e l’aggressione perenne del fuoco hanno inciso in modo determinante sulla stabilità del territorio, al punto che esso oggi è interessato per oltre il 60% da livelli gravissimik di attenzione per rischio idrogeologico.
    In ogni caso  è possibile evidenziare come l’intera Piana versi ormai  in condizioni di  marginalità socioeconomica rispetto al territorio  regionale e nazionale, collocandosi da  tempo agli ultimi posti della
graduatoria stilata in base agli indicatori economici e strutturali anche pet quanto concerne appunto l’olivicoltura che  rappresentava non solo il principale comparto produttivo nel contesto dell’economia agricola locale, ma svolgeva anche un ruolo di primo piano nella valorizzazione paesaggistica e nella difesa idrogeologica del territorio.
     Appena appena quattordici anni fa  (dati del V censimento generale dell’agricoltura del 2000, in Calabria) l’olivo risultava diffuso praticamente in tutti i comuni della Piana, ad eccezione di  qualche lembo di territorio comunale ubicato tutto oltre gli 800 m s.l.m., e in alcuni l’incidenza dell’olivicoltura  raggiungeva il 90%, malgrado  molto  del territorio olivetato fosse ubicato in aree interne caratterizzate da condizioni climatiche e morfologiche  difficili e problematiche. In effetti ben  il 20-25 % degli oliveti  era coltivato su terreni con pendenze da 0 al 5%, il 29% su terreni con pendenze variabili dal 5 al 15%, infine il 18% dei terreni olivetati  erano caratterizzati da pendenze superiori al 30%.
      Oggi invece gran parte degli oliveti, specialmente nelle zone non pianeggianti non esiste quasi più.
      A scoraggiare  i proprietari dei piccoli o grandi appezzamenti di terreno  un tempo benedetti dall’ombra di questi alberi secolari intanto il crollo del prezzo dell’olio di oliva voluto dalle politiche puerili e delinquenziali di cui ho detto sopra, poi la difficoltà  per il piccolo coltivatore di investire denaro in acquisti, sempre più onerosi, di reti per la raccolta, concimi, mezzi per la lavorazione, materiali per la difesa fitosanitaria, oneri per il trasporto e la molitura delle olive e per lo stoccaggio e la  commercializzazione dell’olio.
      E’ pur vero che sulla Piana più interna circa il 50% degli oliveti  si stima fossero  ultrasecolari, con piante spesso di dimensioni notevoli, a volte obsolete, con tronchi cariati, forme di allevamento e sesti irregolari, ma è pur vero che gli aiuti comunitari e regionali per la modernizzazione o il rinnovo degli impianti sono stati disseminati negli ultimi 30-40 anni con criteri assolutamente clientelari, che hanno penalizzato solo i piccoli proprietari,ma non i grandi speculatori che hanno fagocitato risorse e miliardi…!
  In ogni caso ormai il problema  non esiste più: la malattia è stata eliminata uccidendo il paziente!