mercoledì 18 marzo 2015

La penna del Greco: RECUMATERNA (Racconto)

di Nino Greco
   Un’altra prova sostanzialmente inedita della maestria narrativa di Nino Greco, che nel racconto breve esprime l’abilità non comune di elaborare architetture assai complesse, eppure nitide e avvincenti, come si è potuto notare anche nelle raccolte già pubblicate : Mastru Peppinu e Peppineju; Il mare e la quistioni meridionali. Recumaterna è un pezzo indubbio di bravura, un concentrato di contenuti e un virtuosismo di espressioni e di immagini  che si coniugano benissimo con le atmosfere create dal primo romanzo dello scrittore oppidese, La tana del fajetto, (Ed. Pellegrini), che da pochissimi giorni è in libreria e già è conosciuto ovunque. (Bruno Demasi)
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- Oh patri ! ‘issi a mamma u veni a casa ca u nonnu s’aggravau!- urlò Sarineju, entrando nella cantina dove Ciccu stava giocando a patruni e sutta. Un’aria gravida di tanfi colmava ogni angolo di quella bettola. Su quei tavoli spogli e nei bicchieri mezzi vuoti gli avvinazzati ci lasciavano gli occhi.
   Ciccu tracannò con un sol colpo di gargarozzo quel vino di cui era patruni, si asciugò la bocca con la manica della giacca, si alzò e, flemmoso, uscì.
    Era l’ennesimo allarme che sua moglie lanciava.    
   Non appena Pascali, il padre di Ciccu, allettato, emetteva un fischio e tre ronfi di seguito lei si allarmava:
- Trasiu  ‘n gonia - pensava, e mandava subito a chiamare il marito.
   E lui era sempre lì. La cantina era la sua seconda casa e anche più confortevole del basso, dove viveva con i suoi otto figli, la moglie, padre e madre. Al pezzo di orto ci pensavano i vecchi, lui faceva qualche mezza giornata come spaccalegna, ma solo di mattina, il pomeriggio si caricava della bontà di quel vino che spuntava all’aceto e se lo trascinava fino a sera.
  Ciccu s’incamminò verso casa, Sarineju gli corse dietro zumpando tra i fossi di acqua stagnante per evitare, così, di bagnarsi i piedi ‘ncajati e scalzi. Quella mattina, le scarpe le aveva prese suo fratello Rocco ed era andato a raccattare qualche litro di olive cadute dalle pendenze che davano sulla mulattiera che portava a Santa Vennera. Con dieci lire comprava un sigaro. Dare i soldi a sua mamma sarebbe stato inutile, tanto, sempre languide zuhe con sparuti fagioli avrebbe preparato da mangiare, e a lui come a tutti gli altri fratelli le zuhe gli uscivano dagli orecchi.
   Famiglia ricca di sangue, ma povera 'n canna. Otto figli sputati uno dietro l’altro.
- Diu 'i manda e a terra 'i crisci - diceva la mamma e giustificava le ingravidate. Già, Dio li mandava, ma loro, lei e Ciccu, ci mettevano la lena. Poi la terra dava loro solo lo spazio per camminare, a scaza. Crescevano col sole, l’aria e poco altro.
   La più cumandivoli era Pascalina, la prima degli otto. Discipula i maistra e balia dei più piccoli. Aveva cucito, con una pezza di tarpa, dei pantaloni per i suoi fratelli. Tutti di criscenza, con l’elastico alla vita e con la spacca al cavallo, per i bisogni. Il bagno era arretu a sipala. Bastava abbassarsi e il più era fatto.
   Ciccu arrivò a casa, trovò il padre a letto di agonia.
-Sarineju, vai e chiama i previti, dinci ca u nonnu staci morendu- comandò, più per scrupolo che per altro.
  Suo padre non poteva andarsene senza l’ultimo sacramento. Per ben due volte il prete non aveva amministrato l’estrema unzione:
- Non vedete che sta dormendo e ronfa di sonno, non è agonia- e così, Don Sasà, se n’era tornato in canonica. Non voleva sprecare l’olio santo.
- Ogni cosa ha il suo tempo – diceva
- E poi l’estrema unzione è per i cristiani infermi. Non si amministra il sacramento a chi è in buona salute, anche se prossimo alla morte -.
   Ma Pascali era malato e quel giorno non si svegliava. Il respiro affannato e cadenzato era diverso dal
solito. Non si era ridestato, dormiva dal giorno prima ed era rimasto immobile, affossato nel materasso di coppe. Negli occhi semiaperti la pupilla si era nascosta sotto le palpebre e dava un’immagine grave.
   Don Sasà arrivò seguito dal chierichetto, si accostò al capezzale e abbassò il capo per origliare i rantoli da vicino; ne fu certo: stimò per Pascali le ultime due ore della sua angosciata esistenza. Fece disporre una tovaglia bianca su un treppiedi in legno, in un piatto sei batuffoli di cotone, mezzo limone e della mollica di pane. Accanto al tavolo un vacile con acqua e un asciugamano. Il chierichetto lo aiutò a indossare la cotta e la stola viola; tirò fuori, da un astuccio di seta dello stesso colore della stola, il vasetto dell’olio santo, intinse il pollice e comincio a segnare col simbolo della croce: le palpebre, il naso, il labbro inferiore, il lobo delle orecchie, i palmi delle mani e i piedi. Ogni segno di croce tracciato col pollice era accompagnato dalla formula:
-Per istam sanctam Unctionem, et suam piissimam misericordiam, indulgeat tibi Dominus quidquid deliquisti-.
   Don Sasà asciugò con i batuffoli di cotone i punti toccati, si pulì le dita con la mollica e con il limone, butto tutto tra i tizzoni del focolare anche la poca acqua del vacile.
   Ora, Pascali, poteva serrare gli occhi e spegnere i rantoli. Tutti i peccati commessi, con gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie con le mani con i piedi, furono così rimessi.
   La sua vita era stata già un inferno, quali altri peccati avrebbe dovuto riparare?
   Tirò ancora un giorno e finì.
   Raccolsero le sue poche robe, le posero sotto il “lenzuolino” e imbottirono la bara. Ciccu, del padre, tenne una giacca e un calzone. Voleva anche le scarpe ma non poteva mandarlo scalzo nell'aldilà: gli sarebbe apparso in sogno maledicendolo per il resto della sua esistenza. Non poteva nemmeno sostituirle con le sue, consumate e lerce: dentro la bara tutti avrebbero visto i buchi nelle suole.
   Gli vennero in mente i racconti degli incubi di Gianni Spulicatroje, suo vecchio compagno di cantina, che aveva levato il dente d'oro al padre appena morto e per lui erano cominciati i tormenti. Tutte le notti il padre gli appariva in sogno intento a mordere nu jhiancu di pane e poiché non riusciva a morsicare gli scaraventava ogni maledizione.
   Pensò che fosse colpa del vino, carico di bisolfito, che Onna Ciccia gli misurava nella solita cannata, se
quelle visioni tornavano puntuali. Provò a non bere vino per qualche giorno ma nulla: i sogni angosciosi tornavano.
   Poi anche Gianni se ne andò. Il medico gli aveva detto rudemente della sua malattia: - hai l’acqua nda panza!
- Dottori vi sbagghjiati, non è possibili l’acqua ‘nda me panza! Jeu ‘mbippi sempri vinu! A mmenocchè ja ‘pputana i onna Ciccia non llongau u vinu cu ll’acqua!
   Aveva risposto cosi alla diagnosi del medico. La cirrosi gli aveva chiuso i giorni, ma aveva fatto in tempo, con una sceneggiata, ad accusare Onna Ciccia di mescere acqua col vino di Barbàra.
   Sbarazzarono il basso e lo pararono a lutto, al centro su due trispiti e due tavole: la bara. S’erano preoccupati di serrare, con un fazzoletto, la mascella di Pascali. Sembrava riposasse in compagnia di un forte mal di denti, ma gli erano rimaste solo le gengive.
    Figli e nipoti erano lì, muti e spiritati. Una bocca in meno da sfamare, un posto libero per dormire.
- C'a nonna mi curcu ijeu!- si era accaparrato Sarineju pregustando il materasso del nonno.
   Arrivò Don Sasà, stavolta con due chierichetti: uno con la croce e l’altro con l’acquasanteri e, dentro, l’aspersorio.
-Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua luceat eis. Requiescat in pace. Amen-.
    Si segnarono tutti in bisbiglio confuso. Don Sasà usci.
   Onna Genia fu lì. La sua sagoma nera reggeva il braciere poggiato in testa, le sue mani dietro la nuca aprivano le braccia e davano un’immagine statuaria. Lei era già al centro della strada e alla spicunera che apriva alla via principale che portava in chiesa, scalza e misteriosa. Anticipava l’ultimo tratto di cammino del povero Pascali, voleva donare luce per fare attraversare agevolmente l’ultima gola di tenebre, e legare la sua anima al fumo che si elevava per l’abbraccio col divino.
   A Don Sasà non garbavano nè Onna Genia nè il suo rito: un misto tra il sacro e il pagano. Diceva che il braciere era cosa di saraceni e nulla aveva a che vedere con i riti cristiani e che, per giunta, era un vecchio arnese per preghiere rivolte agli dei, dai greci e dai romani, ma non poteva farci niente. Onna Genia partecipava senza essere invitata nè compensata. Poteva mancare la banda, ma Onna Genia no. La sua assenza da un funerale poneva dubbi timori e paure, spesso anche maldicenze.
   L’aria bruna del vespero d’autunno aveva accompagnato Pascali o' puntuni du Russu, lo stringi mano fu veloce e se ne tornarono a casa. Anche Onna Genia se ne tornò e col braciere al fianco,
-Paci all’anima sua, finiu i patiri - dicevano tutti.
   Lui sì aveva davvero chiuso con i patimenti, ma sapeva di lasciare sulla terra figli e nipoti in un mondo dove le sofferenze si accavallavano.
   Cummari Cuncetta finì di apparecchiare sulle tavole poste sui trispiti, dove fino a qualche ora prima vi era la bara. Tovaglia da tavola a quadri rossi e bianchi, le posate per l’occasione e già due fiasche impagliate nascondevano il colore scuro del magliocco di Barbàra. Era l’ora della consolazione. Dopo i giorni del lutto, gli addolorati riassaporavano i cibi. Già, era così per chi abitualmente mangiava almeno un pasto al giorno, ma per la famiglia di Ciccu ciò che si stava preparando era una mera novità.
   In quella casa si mangiava quando si poteva e non per mancanza di tempo. Mai si era vista una tavola imbandita, come quella che si era parata ai loro occhi. Solo qualche festa ricordata o poco altro.
   Sarineju si sedette accanto al padre; assaporò una fetta di pane, per rompere la timidezza, mentre il vapore della minestrina al brodo di pollo gli riempiva le sue narici.
-Patri, chi jè, m’a pozzu mangiari- chiese Sarineju al padre, il quale senza indugiare lo invitò a mangiare.
   Sarineju, così come i suoi fratelli, ingurgitò la pastina in brodo e le polpettine di pollo, poi con gli occhi rivolti ancora al padre fece intendere che voleva continuare, mettendo mano ai cosciotti al petto e alle e ali. Ciccu diede cenno di assenso. Seguirono crocchette di riso e patate, poi melangiani chini, formaggio e per la prima volta videro sulla tavola una provola intera. Il padre ne affettò un po’ e la diede ai figli ormai sfamati e intenti a ingoiare quanto si poneva alla loro visione. Masticavano e si guardavano. Gli sguardi s’incocciavano silenti. Tutto sembrava irreale, quegli odori di cibi avevano rotto il tanfo di muffe e di terra.
   Era rimasto niente nelle insalatiere. La sazietà traspariva dai volti di grandi e piccini. Il silenzio, ora sì, donava pensieri al morto.
   Sarineju poggio la testa sul braccio del padre, Ciccu si girò e lo guardò, nei piccoli occhi neri lesse sazietà, e rilassatezza.
   Il ragazzo si alzò, si avvicinò all’orecchio del padre e sottovoce, per evitare l’ascolto agli altri, chiese: 
-Patri, e ora quando mori 'a nonna?