domenica 24 marzo 2019

LE CAMPANE E LA FIERA DELL’ANNUNZIATA IN OPPIDO DI CALABRIA

 UNA SUONATA A QUATTRO MANI
di Giuseppe Pignataro
___________
   Sembra appena ieri, ma sono passati  ben oltre  quaranta anni, da quando il canonico Giuseppe Pignataro – la cui grande memoria è stata troppo presto archiviata - pubblicava, nel lontano 1975, col titolo “Le campane e la fiera di Marzo”, questo  stupendo reportage dalla celebre fiera dell’Annunziata in Oppido, ridando vita e colore ai suoi ricordi e a quelli del suo concittadino e compagno di memorie e di visite tra le bancarelle, Peppino Feis. Ricordi risalenti certamente ad anni ancora precedenti che ci restituiscono intatta la fiera di almeno sessanta o settanta fa, quando essa era concretamente funzionale alla realtà di un centro della Piana – Oppido Mamertina – faro reale  di cultura, di religione e di sanità per tutto il Comprensorio, ma anche vitalissimo centro agricolo , artigianale ed economico e quando le processioni non erano ancora relegate a ruoli di bastoni o di carote. Una fiera, una festa, non sganciate dal territorio né posticce, ma reali interpreti delle molteplici vocazioni del luogo che le esprimeva e alle quali accorrevano migliaia di persone dai centri circonvicini e  da quelli più lontani intonando umilmente il canto che qui ci ripropongono la voce e l'arte di Salvatore Rugolo, a sua volta oppidese.
   La prosa pulita e corposa del canonico Pignataro, qui come  nei suoi magistrali scritti storici, resta di un’eleganza e di una fluidità insuperate e insuperabili, tanto che ad essa potremmo approssimare solo qualche pagina dei più grandi scrittori e giornalisti toscani del Novecento (…penso almeno a Papini, a Palazzeschi, a Soffici e a pochissimi altri, anche posteriori). (Bruno Demasi)

_______________

   Le campane, unico superstite del tempo trascorso tra sventure ed entusiasmi, ci accolsero quel 25 Marzo sbrigliandosi con le loro voci di festa. Avevano atteso per tanti anni quel ritorno di santi e di uomini cercatori di Dio. Si erano sempre considerate elemento complementare della liturgia. Ma quei giorni di marzo le campane si erano prese la prima parte: e se ne vide il risultato. Ai loro squilli spuntarono da tutti i punti dell’orizzonte, come ai tempi antichi, i fieraioli della nostra infanzia con allegri sonagli e trombette e grida di festa. Mi trovavo in compagnia di un amico e ci recammo a visitare, com’era d’obbligo per i paesani, la grande agorà del Winspeare e del Lavega (La piazza grande progettata dai due grandi ingegneri cui si deve l’assetto della nuova Oppido. N.d.r.); da quel luogo un immenso bazar dilagava lungo l’asse principale – il rettifilo – e le adiacenze dell’abitato.
   La mattinata di marzo lo consentiva: la giornata era tenera come la più bella della primavera. Era dunque con me l’amico che aveva gran voglia di chiacchierare e di girare: gli proposi che insieme si pigliasse visione della fiera “visitamu ‘a fera”. Toccò a me coordinare le comuni impressioni e dare il testo di questa suonata a quattro mani.
   Gli “stands” della dolce ghiottoneria erano i primi a funzionare; ospitavano vere pasticcerie per soddisfare la gola più o meno esigente degli aristocratici e dei frantoiani e dei professionisti più in auge. Questi posti di vendita erano protetti da teloni e formati da impalcature variamente solide e grandi a seconda della ricchezza delle merci esposte. Aree abbastanza vaste venivano occupate dalle terraglie:” pignati, bumbuli e quartare e graste” oltre che dalle lattonerie degli stagnini oppidesi, gente estrosa capace anche di fare abiti di latta. Costoro cercavano di fare concorrenza ai ceramisti fabbricando: pentolame, bricchi, caffettiere, orci, coperchi, il tutto di latta, fino alla serie d’imbuti, grattuge, lanterne: alcune di queste lanterne col tetto piramidale e scaglioso parevano la casetta a vetri di una fata. Gli affari andavano bene per tutti i partecipanti, molti dei quali arrivavano da lontano.

  Era roba da consumo che si portava in fiera.
   Tra coloro che aspettavano con più ansia l’arrivo della fiera erano le ragazze da marito, dalle quindicenni in su. Si facevano i grandi acquisti di “pentinella”, quel genere di filato che serviva a confezionare la “tela di casa” alle maestre di telaio nei lunghi e caldi pmeriggi d’estate, una tela indistruttibile da lenzuola che da principio greggia e ruvida, a furia di ranno e sapone, diveniva candida e carezzevole.
    Davanti al banco di vendita, per le compere si presentavano le donne più intenditrici del casato, nonne e zie, oltre alle più dirette interessate, la sposa e la madre, che era quella che teneva la borsa del danaro, cioè il “gruppo” col fazzoletto sprofondato dentro la sacchetta della seconda sottana, o più al sicuro in mezzo ai seni; giusta l’uso della casta cui apparteneva. Infine quando l’affare si era fatto, tutto calcolato con tanto d’occhi aperti, i denari sborsati con la medesima vigilanza, coi grandi fagotti issati sul capo, una dietro l’altra in fila indiana, le donne del casato facendosi largo a falcate di fianchi, tagliavano la folla per avviarsi alle loro case, e Dio sa come erano superbe e soddisfatte. E le file delle portatrici come mitiche canefore erano tante e tante. Il “damasco” è uno degli accessori molto importanti nell’ambito delle costumanze oppidesi. Per la sua scelta interviene la sarta di famiglia, e le sposine ci tenevano non poco a farsi accompagnare da colei che le avrebbe drappeggiate nel loro abito da sposa il giorno che si fossero presentate all’altare.
    Ed ecco gente che procedeva all’acquisto dell’oro per la sposa. Tra gli orecchini e gli anelli,

oltre alle fedi, c’era di quelle donne che si permettevano la spesa del “brilloccu”. E’ questo un pezzo di oreficeria che ha quasi un potere magico: sembra che esso preservi casta la sposa. Era uno spillone di oro massiccio senza pietre preziose, eseguito in stile barocco, che le donne usavano appuntarsi al corpetto, attillatissimo e chiuso in canna, all’altezza della gola sul pistagnino del colletto.
    La spesa dell’oro, il costo del “brilloccu”, erano sostenuti dal fidanzato.

   Ancora un tipo di merce ricercata erano le ramerie: bracieri, paioli, casseruole di ogni tipo. Questa merce veniva esposta nei bassi e vi rimaneva finita la fiera. Costava molto e sollecitava agli acquisti non solo i nubendi ma le cucine di ogni casa oppidese, anche la più misera.
    Le telerie esposte non avevano numero. Cataste di “balle di tele” sparivano da un’ora all’altra. Il centro dell’agorà era come sempre riservato alle telerie, ai filati,ai panni, ai tessuti. Un posticino modesto occupavano i venditori di sementi: nei saccolini di tela bianca rimboccati, i semi venivano esposti rotondi come occhi di pernice, piatti come strani rincoti vegetali, più minuti di un granello di polvere, erano venduti ai contadini per la seminagione negli orti: i saccoli portavano ciascuno, parati tra le sementi, dei nodi di canna trasformati in misure.
    Pochi, ma c’erano, i venditori di cuoio nostrano per le cioce da pastore. Esponevano lungo il

rettifilo accanto alle oleografie sgargianti di Madonne, piamente inclinato il volto, e di Gesù Cristo paziente dalle carni lacerate orride di sangue. Su i marciapiedi rigurgitavano le ferrarecce: utensili, roncole, arpe per la mietitura, accette, zappe. Nè minore era la presenza delle scarpe grosse schierate con un certo ordine.
    Sorgeva in soprannumero delle taverne paesane in uno scantinato qualche osteria improvvisata. E in qualche cantuccio bollivano i sanguinacci pizzicanti di pepe nero; ne gustavano molti leccandosi le dita.
    Tipici fieraioli sono stati sempre i “nzuiari” e i venditori di cavallucci e ceci abbrustoliti. Anche quella volta non mancarono a prender posto come d’usato: in attesa, alcuni, dei clienti. ”U nzuiu”, il dolce popolare ottenuto con l’impasto azzimo di farina e miele, si era esibito in piazza, sicuro del suo credito, nella foggia delle forme tradizionali: S, pesce, paniere, cavallo, cuore, e quest’ultimo, per le fidanzatine, guarnito di stagnola colorata, tanto che spiccava tra quella pasticceria.
    Graziosi ancora si potevano definire i cavallucci di caciocavallo per la snellezza, lo slancio, le giuste proporzioni con cui erano confezionati e i fiocchi di lana verde e rossa che simulavano il loro basto e la loro criniera. I ghiottoni di piazza facevano a gara a divorare nel minor tempo un cavalluccio senza alcun aiuto delle mani. Si levavano le stecche di canne che tenevano disteso il cavalluccio e si legava al suo collo la lunga corda di cacio che costituisce gli arabeschi della sua guarnizione e poi la s’imboccava al contendente che doveva ingoiare il cavalluccio traendoselo in bocca dalla funicella di cacio, senza che il boccone cadesse per terra. Il vincitore si godeva il pasto, e il compagno pagava.
    Chi vende “nzuji” delle volte vende ceci abbrustoliti e fave arrostite. Grande è stato sempre il consumo di questi cereali che cotti vanno bene insieme al vino. Noi girammo per la fiera e ne vedemmo offerti all’Annunziata al passaggio della statua. Pugni di ceci sventagliarono per l’aria quasi per una strana seminagione: ne caddero sul manto azzurro della celeste Patrona cui era diretta l’offerta e a quella umile pioggia tinnì di soprassalto la grande raggera del fercolo trionfale.

    Dopo il giro di rito seguendo i foresi cicalanti e i forestieri tronfi di aver visitata la grande fiera “d’a Nunziata” potemmo tornare il piazza dove intorno a delle semplici girelle i ragazzi rischiavano i loro quattrini. 
    L'indomani  il mercato veniva riservato ai cittadini.
    Quel giorno, si nota per la cronaca, era il 25 marzo e non spirava vento.
________
P.S. L’amico a me associato nella visita alla fiera è un oppidese: Giuseppe Feis. Artigiano un
tempo, oggi appassionato agricoltore in Toscana, è stato sempre scrittore affettuoso di cose nostre e alla sua attività letteraria non sono mancati significativi riconoscimenti. Aveva un certo diritto ad essere portato in questo libretto di memorie della SS. Annunziata. Giovane ancora, Giuseppe Feis, quando la sua famiglia gestì il magazzino della nostra Madonna, ebbe particolare cura della contabilità di quella istituzione cooperativistica che si proponeva il sollievo materiale della povera gente nell’acquisto dei generi di prima necessità. Il Magazzino economico fu uno degli ultimi istituti in onore della Madonna Annunziata voluto dagli Oppidesi. Quando all’inizio del secolo (1900 N.d.r.) l’opera sorse, il sindaco del tempo, Avv. Vincenzo Genoese, si oppose a tutt’uomo alla sua istituzione e convenne in giudizio (1902) gli organizzatori della cooperativa. Per la storia furono chiamati a rispondere davanti alla legge:il canonico Giuseppe Maria Delfino, in qualità di direttore e il primo magazziniere certo Gargano. L’autorità giudiziaria, con dispetto del sindaco laicista, mandò prosciolti gli accusati, lasciandoli liberi nello svolgimento della loro iniziativa.(Giuseppe Pignataro)
________________________________________