martedì 14 aprile 2015

NON TUTTI I GIORNI SI PUO' ANDARE A MENDICINO

di Maria Lombardo
 Una storia che sembra ambientata nell'Africa tribale delle grandi esplorazioni, ma che ha come sfondo la provincia calabrese  di appena un secolo fa
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Panorama di Mendicino
  Siamo a Mendicino in provincia di Cosenza, a quel tempo Calabria Citeriore, quando  nel 1888 giunge per una questione di studio l'antropologa torinese Caterina Pigorini Beri poiché sapeva che il centro era indicato come paese famoso “pei fichi, pei briganti e per le streghe”.
    Caterina arriva in carrozza scende nella piazza del paese e si fa indicare la casa di Minicheddra, la magara del paese: giungeva qui infatti per studiare queste donne e per chiarire al suo mondo come le vedeva. La letterattura del tempo le dipingeva come donne libere, capaci di girovagare di notte, di far paura anche ai principi e ai re. In realtà le streghe erano il frutto di ignoranza, paura e superstizione. Come diceva Voltaire: "Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle".
   La Beri osserva molto il paese e la gente e  nota che su botteghe e case campeggiano ferri di cavallo, forbici arrugginite e maschere antropomorfe. Ovviamente queste erano usanze calabresi  molto diffuse: bastava solo che lo capisse  la giovane torinese.
    Giunta dalla magara, si presenta a lei una donna anziana magra e vestita miseramente, ma molto altera e con una enorme autostima. Alla notizia che la studiosa fosse in paese la gente accorse a gustarsi il duello tra scienza e tradizioni popolari. 
    Appena Minichedda  la vede in una sala gremita di gente, dice sbadigliando: “E’ adocchiata”, cioè è oggetto di malocchio, con uno sguardo di complicità verso la folla. Il fatto di sbadigliare era il sintomo del malocchio su Caterina. L' anziana esclama per tranquillizzare la studiosa:” ora ti sdocchio”, e comincia con uno strano rituale con dei borbottii e delle formule, per liberare la Beri.
   La giovane assiste al rito rapita, convinta che avrebbe ricavato un buon trattato di studio. Il rito ha successo, e la nostra Caterina forse suggestionata, si sente meglio e, affascinata maggiormente dall'anziana donna, inizia a proporre alla gente domande per poterla conoscere meglio.

    Le raccontano che conosce i segreti delle erbe medicinali, e prepara pozioni e filtri. Ha una soluzione per tutti i problemi. Le indicano anche che conosce i segreti dell'erba di San Giovanni che si credeva avesse il potere di allontanare i demoni, ma anche di evocarli. Motivo per il quale nei villaggi rurali le donne pratiche di magia venivano trattate con timore e con rispetto, chiamate con l'appellativo di zia o comare. Però come tutte le magare aveva il potere di ammaliare le persone con formule e filtri, eccitare l’odio o l'amore, produrre malattie, gettare il malocchio su uomini e animali. La sua vicinanza alle forze della notte, al potere misterioso della luna, le rendeva capaci di trasformare gli uomini in lupi e questi disgraziati passavano le notti di luna piena urlando e camminando carponi per le strade intorno ai villaggi. Del resto alcune famiglie di Mendicino erano famose in tutta la provincia perché conoscevano i segreti delle erbe ad uso terapeutico.
   Caterina  dona dei soldi a Minicheddra, quasi a volerla  ringraziare per il gesto subito ( o per paura) e, dopo aver assistito ad una spettacolare tarantella, dal titolo “Quannu nascisti tu Rosa bastanti” ,cantata e danzata da affascinanti donne mendicinesi, se ne va a malincuore dal piccolo paese cosentino, concludendo il suo racconto con la frase:
“Non tutti i giorni si può andare a Mendicino”.