sabato 2 maggio 2015

MA CHI SONO I FAJETTI?

di Maria Lombardo
   Il recente romanzo di Nino Greco "La tana del fajetto", i vecchi  e nuovi, capricciosi e furbi individui  incollati alle poltrone e agli sgabelli della politica regionale, hanno riportato alla memoria una leggenda antica che permeava il fatalismo della nostra gente per spiegare il perchè di tante cose che andavano male nella vita, quella dei  "fajetti". Ma chi erano questi esseri misteriosi?
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   Che la Calabria sia la terra della leggenda oltre che della grande storia è risaputo, ma forse si sta dimenticando che esistono tanti miti minori, tramandati da generazioni in generazioni, da poter riempire pagine e pagine di libri. Escludendo i più famosi, i restanti, cioè quelli di minore importanza, si sono persi – ahimè! – dietro i nostalgici tramonti della storia. Fortunosamente ho ripescato (se non altro per confermarne l’esistenza) alcuni di essi, anzi, uno in particolare: u fojettu o fajettu ( che nelle varie parlate calabre locali può diventare fadettu, foddittu, fuddittu, fujettu, follettu, hagliettu, farettu, fiddittu, monacedu e ha il suo corrispettivo nel folletto di tradizione nordica ): il simpatico omino burlone che abitava, secondo il mito agreste, le nostre montagne e che durante le notti di pioggia s’introduceva furtivamente nelle stalle per ripararsi e spaventare gli animali. Era davvero la disperazione dei massari delle nostre montagne. Si dice però che l'esserino non facesse solo questo e che vivesse in nutrite comunità, ma nessuno li aveva mai visti poiché facevano vita notturna. Cosicché i componenti dei due mondi, umani e fajetti,, vivevano le loro sorti separati da una sorta di barriera permanente. Una barriera che delimitava non solo il giorno dalla notte, ma il mondo della realtà da quello della fantasia.
    A parlarci di loro sono sempre stati i carbonari, i pastori abituati a vivere nelle alture, molti dei quali, seppure ne parlarono in una o due occasioni, ebbero la fortuna, a sentir loro, di imbattersi con queste creature e, in alcuni casi, di trascorrere con essi le notti d’inverno. Raccontano che oltre a vederli avrebbero passato tempo con loro davanti alla luce di un focolare rurale ad arrostire castagne, bere vino e raccontarsi mondi e abitudini degli uni e degli altri con il tacito impegno da parte di entrambi, di non rivelare ciò di cui erano venuti a conoscenza.
    Mentre noi comuni mortali immaginiamo i fajetti come esserini con vestiti variopinti e col cappello a punta, qualcuno li descrive come esserini di color olivastro, piuttosto goffi, che, seppure paragonabili ad un umano di piccole dimensioni, possedevano le fattezze di un gatto, di uno scoiattolo forse, c’è chi dice addirittura di un grosso gufo.
    Non si conosceva dunque con certezza la fisionomia di queste creature che invece sembrava per certo che amassero le burle, come si favoleggiava intorno ai focolari rurali e di paese: oltre che amare fare le trecce alle messi, amavano bere il latte dalle mammelle delle pecore, intrecciare le code a muli e cavalli, fare scalpitare le vacche e in diversi casi succhiare il sangue agli stessi animali. Comunque creature che vivevano nel mondo delle fiabe tra incantesimi e sortilegi, salvezze e compensi.
    Una leggenda molto diffusa e variamente ripresa e raccontata di zona in zona vuole che in una fredda notte di febbraio, mentre l’Aspromonte sonnecchiava sotto una fitta coltre di neve, uno dei folletti di ritorno da una fattoria, dove aveva perpetrato le sue burle a danno di alcuni animali domestici, fu assalito da un branco di lupi. Ridotto in fin di vita riuscì a salvarsi arrampicandosi sopra un albero. Ma sarebbe morto comunque, forse assiderato o per le ferite riportate, se non fosse stato che un pastore, avvertendo la presenza dei lupi, temendo che stessero per assalire il gregge, li cacciò via a fucilate. Fu dopo quel trambusto che il folletto si lasciò cadere dall’albero, e che il pastore si accorse di lui. Il povero mandriano, benché non avesse idea di cosa si trattasse, portò il folletto dentro il suo capanno per sottoporlo alle relative cure. Ci mise una decina di giorni il folletto per riprendersi; ed altrettanti per arrivare ad essere nelle condizioni di lasciare lo spiazzo. Ma prima di farlo volle riparare il disturbo causato al pastore. E lo fece in maniera brillante rivelandogli il punto esatto (nel tratto un tempo conosciuto come la Via dell’argento, precisamente tra Samo e Ferruzzano) dove giaceva sotterrato un forziere colmo di monete d’oro Forziere che, in seguito, fu realmente recuperato dal pastore, e che nell’arco di poco tempo fece di lui uno degli individui più ricchi dell’entroterra aspromontano.    
    Benché abbiamo quasi la  certezza che si tratti di una fiaba, ci piace lasciare uno spiraglio aperto all’altra realtà, quella che fino ad oggi ci ha visto accostati a un mondo che sin dai tempi d’Omero, e forse anche prima, ha costellato di fascino e magia le nostre misere esistenze.