giovedì 21 maggio 2015

Strisce di Calabria: VATTENE DA QUESTO POSTO, CHE QUI NON C' E' RIMASTO PIU' NESSUNO

di Felice Diego Licopoli

  L'emigrazione come categoria dello spirito nel racconto di Felice Diego Licopoli, che nel  romanzo, da cui è tratta questa pagina, " Strisce di luna" ( Città del sole ed.), riporta il discorso alla Calabria che parte, che continua a fuggire dalla desertificazione umana di ieri , ma ancora oggi voracissima, specialmente per i disperati che vi arrivano. Sembra una prosa convenzionale, ma il giovane scrittore, che si sta imponendo con la prepotenza del pioniere nella sperimentatazione  di atmosfere letterarie inedite, ci riserva tutta una serie di esplosioni linguistiche e narrative che occorre conoscere e che sicuramente faranno parlare molto di lui (Bruno Demasi).
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   «Vattene» gli aveva detto una sera, mentre cenavano sul loro piccolo tavolo di legno, nella loro piccola cucina di tufo e lo aveva osservato girare e rigirare il cucchiaio nella minestra con lo sguardo fisso e pensieroso.
   «Vattene da questo posto, figliolo mio, che qua non c’è rimasto più nessuno. Solo vecchi, bambini e i cristiani cchiù tinti e malvagi. Non voglio vederti diventare uno di loro. Va’, e raggiungi i tuoi fratelli. Non ti preoccupare per la tua mamma, io in qualche modo me la caverò. E poi, dalla mia casa mi possono cacciare solo da morta».
    Turi non aveva risposto. Si era alzato da tavola e se n’era andato nella sua cameretta, stendendosi sul letto ad osservare le stelle fuori dalla finestra e domandandosi se, un giorno o l’altro, le avesse potute raggiungere. Non si sarebbe più dovuto crucciare dei pensieri da mortali, ma avrebbe guardato il mondo dall’alto, come un piccolo puntino lontano.
    Così, dunque, suo malgrado, scacciò il pensiero di voler portare con sé la ragazza che amava e che adesso gli era dinanzi sul portico, nella gelida notte, e lo stava baciando come forse non mai aveva fatto.
    «Allora è per domani, giusto? Ormai è deciso…», gli aveva chiesto lei con un velo di tristezza.
    «Sì, ormai è sicuro. Parto, vado in America dai miei fratelli».
    «Ah sì, certo… ma tornerai qui?».
    «Non credo… dovrò cercare sistemazione laggiù».
    «Quindi da domani non ti vedo più?» gli domandò Antonia con un filo di voce. Il vivo nocciola dei suoi occhi sembrava essersi spentoe diventato una piccola opaca sfera che le contornava le pupille.
    «No, non ci vedremo più… a meno che tu non possa raggiungermi. Ma non mi sento di dovertelo chiedere, non voglio che lasci la tua casa per me».
    «Ma come vivrò senza di te? Non mi puoi lasciare! No, non voglio!».
    Adesso giaceva con la testa infossata nel petto del ragazzo, lo percuoteva con i pugni usando quasi tutta la sua forza. La sua tristezza si era tramutata in lacrime calde e pungenti che bagnavano la casacca un po’ sgualcita di lui in un incessante sgorgare. Turi, per provare a lenire il suo dolore, le aveva stretto la piccola schiena fra le braccia e aveva cominciato a baciarla delicatamente sulla fronte,sussurrandole frasi rassicuranti:
    «Ti prego, amore mio, non la prendere così. La colpa non ce l’ha nessuno, solo il destino maledetto, che ci allontana. Ma non temere, piccola mia, ti scriverò ogni volta che potrò e ti manderò tante cose dall’America. E se un giorno vorrai e potrai, magari verrai a trovarmi, se nel frattempo non ti sarai fatta una vita degna di decoro qui. Io sono costretto ad andare. Sono stato richiamato dai miei fratelli tramite lettera, non posso rifiutarmi, purtroppo».
    Quelle dolci parole ebbero il potere di calmare un po’ Antonia. Si fece asciugare le lacrime con dolci baci, lo guardò dritto negli occhi, e lo baciò con tutta la passione di cui era capace, lo baciò come mai aveva fatto prima d’allora, perché in cuor suo sapeva che quelli erano gli ultimi baci dati al suo amore ormai perduto.

    Continuarono così per diverse ore, lì fuori sul portico, sotto la timida luce di un lampione a petrolio. Turi ancora ricordava la lettera trovata un mese prima al mattino sul piccolo tavolo di legno della cucina, e di come si era lasciato andare sulla sedia quando ne aveva letto il contenuto perché sapeva che sarebbe dovuto andare via per sempre, lasciando indietro tutto quello che aveva conosciuto. Era stato suo fratello Rino a scrivere.
    "Caro Salvatore, sia io che Michele e Felice ormai siamo in America da quasi un anno. Qui ci troviamo veramente bene, abbiamo trovato un lavoro, ognuno di noi ha una casa e ci siamo sposati con delle bellissime donne, che avrai modo di conoscere. Qui la vita è bella, ci sono un sacco di posti da vedere e da scoprire. T’inviamo questa nostra per invitarti a venire a stare da noi e sistemarti anche tu a tua volta. Un tuo rifiuto farebbe dispiacere sia a noi che a chi sai tu. Speriamo ti organizzerai al più presto e verrai a trovarci". Il resto della lettera riportava le indicazioni per raggiungerli nella città dove si trovavano, a Rochester, nello stato di New York.
    A Turi preoccupava non poco quel chi sai tu di cui parlava la lettera, sapeva bene a chi si riferisse. Era suo fratello Vito, il primogenito, e anche la pecora nera della famiglia, il figlio cattivo che una madre non vorrebbe mai avere.