domenica 7 giugno 2015

Barlaam in bicicletta: PRIMA COMUNIONE

di Natalino Russo Seminara
    E’ questa  la domenica magica del Corpus Domini, quella in cui, se ci pensassimo, sprizzeremmo gioia da tutti i pori per avere  Gesù vivo sempre in mezzo a noi, quella  in cui occorre felicitarsi  soprattutto, con i ragazzini e  le ragazzine che fanno la Prima Comunione, che incontrano Gesù nella loro beata innocenza  e ne assaporano lo Spirito. A loro , alla  Parola del Vangelo che dice «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Matteo, 28, 19-20)». dedico questo racconto sulla mia Prima Comunione che come vedrete è stata assai diversa da una semplice , canonica Prima Comunione, ma forse proprio per questo è rimasta ancora più indelebile e memorabile e mi è ancora più cara che se fosse stata normale.

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 Conversazione tra me e la  protagonista del mio libro, in gestazione, intitolato "Cilea nel Paese delle Ulivarelle" :

   "C’è stato un periodo di assidua frequenza con mia zia Tetè. Casa sua era per me il rifugio più sicuro, tutte le volte che dovevo sfuggire alla ‘cattura’ da parte di mio padre, che minacciava di suonarmele, allorquando, e succedeva spesso, scopriva che avevo bigiato la scuola, o rovinato le scarpe giocando a pallone, o combinato qualche altro guaio, tipo rompere qualche vetro con una pallonata. Per tacere delle arrabbiature che gli procuravo alla fine di ogni trimestre, quando la mia pagella riportava numeri a due cifre nel colonnino delle assenze e, nel profitto, quei numeri che i cantanti battono prima di iniziare una canzone: one, two, three, four. L’unico voto sopra il cinque, ma di pochissimo, l’avevo in condotta.
    In realtà, mio papà non mi ha mai picchiato;la sua mano, quando mi beccava, decollava chiusa a pugno, accompagnata da una voce, stentorea come quella del pilota di un aereo: “Ti ’mmazzu, disgraziato, ti pezzìu, vagabundu e lavativo chi non sì atru!”, ma planava sulla mia testa ‘matta’ sotto forma di carezza, energica a volte, però, mai violenta. Ma questo lo sapevo sempre dopo, perché le minacce di spaccarmi le ossa, al momento in cui venivano gridate, a me sembravano vere, e per questo spesso mi davo alla ‘latitanza’ nel covo di zia Tetè, che, ospitandomi, commetteva molto volentieri il reato di favoreggiamento.
    In una di queste occasioni, avrò avuto una dozzina di anni, appena entrato in casa, Tetè mi porse un maglione, dicendo: “Guarda, che bello! Provalo”. Lo indossai, mi stava a pennello. Era rosso con bordi neri, i colori del mio Milan. “Sembri un modello”, mi disse, “tienilo indosso e questo vecchio lasciamelo che lo lavo”. E ci aggiunse una carezza che io, ingrato, cercai di schivare».
     In quel momento, una carezza sembrò anche la voce di Alice.
     «Perché non riporti in dialetto le parole di Tetè, come hai fatto con tuo padre? Mi piace sentirle».
     «Non posso farlo perché, mi ero dimenticato di dirtelo, Tetè parlava in italiano. Lei si sentiva, e in parte lo era, una persona molto colta, una delle poche che leggeva qualche giornale, o qualche libro, ogni tanto. Dunque, con indosso il maglione nuovo, venni portato per mano vicino alla sua “cassaforte”, che consisteva in un fazzolettone annodato in modo da formare tre scomparti. Sciogliendo il primo nodo apparivano gli spiccioli, il secondo nascondeva lenzuolini semplici da cinquecento e mille lire, mentre il terzo, chiuso con doppio nodo, inaccessibile come il caveau della Banca d'Italia, custodiva i “lenzuoli ricamati”, da cinque e diecimila lire. Tetè il primo nodo lo scioglieva spesso, il secondo nelle grandi occasioni, il terzo mai, almeno in mia presenza. Quel giorno mi regalò trecento lire, cavandole dal primo scomparto; poi, tirando fuori dal secondo mille lire, mi disse di andare, prima, al bar di don Ciccio e Peppino Gioffrè per comprare un chilo di sussumelle; poi, in quello di don Vincenzo Gioffré per un chilo di stomàtico, e infine al bar dei fratelli Zagari per un chilo di Pitte di San Martino, e, concluse, “Tièniti il resto delle mille lire, se ne avanza”».
   Per la verità, dei tre pasticcieri, la zia pronunciò non i nomi ma i soprannomi con i quali erano pubblicamente conosciuti e che io non ritengo rispettoso riportare. Comunque, riferii ad Alice che i tre erano dei veri artisti in generale, ma come, poi, ciascuno di loro eccelleva nella specialità dolciaria che Tetè mi aveva raccomandato di comprare; infine illustrai anche come ognuno di quei dolci era fatto decantandone la squisitezza.
    Per i lettori che li conoscono e li hanno assaggiati è superfluo ripetere le spiegazioni fornite ad Alice. A chi non li conoscesse, invece, dico che il poterli gustare sarebbe un buon motivo (uno dei tanti !) per visitare Seminara.

   Oggi, purtroppo, i tre artisti “durceri” non ci sono più, e forse staranno in un posto migliore del nostro. Di Zagari c’è però un erede, Antonio, che continua degnamente la tradizione familiare e che produce ancora manualmente, secondo le antiche ricette e con ingredienti del tutto genuini e naturali tutte e tre le specialità, Pitte di san Martino in particolare.
    La mia descrizione dei dolci seminaresi, forse offerta con amore e bravura particolari, aveva provocato ad Alice l’acquolina in bocca. Io, più prosaicamente, continuai il mio racconto.
    «Intascati il denaro e sorbita tutta una serie di consigli: “attento a non perdere i soldi”, ‘non chiamare i dolcieri col soprannome”, “compòrtati educatamente”, “torna presto”, eccetera, scappai a spenderlo, senza ringraziare, con quell’insensibilità che fa tanto soffrire chi, volendoci bene, s’aspetterebbe da noi un gesto, anche piccolo, d’affetto e di gratitudine. Soltanto Superman” sarebbe in grado di riportarci indietro nel tempo per rimediare agli errori. Ma accade soltanto nei film, per questo non posso tornare indietro per abbracciare e ringraziare Tetè, come avrebbe meritato. Col maglione nuovo, mi sentivo elegantissimo, e questa sensazione s’accentuò quando, passando sotto la finestra alla quale erano affacciate Bice e Mariangela, due sorelle nostre vicine di casa, dalla prima mi sentii dire: “Come sei bello, Natalino, con quel maglione!”. Feci il giro dell’isolato e ripassai sotto la finestra nella speranza di riudire la frase. Che stavolta fu pronunciata dalla seconda sorella. Poi, stando al gioco, me la ripeterono entrambe, aggiungendo, come suol dirsi, anche “un carico da undici”: “Se tu fossi più grande, ti vorrei per fidanzato”, e altre frasi dello stesso tenore, una per ognuno dei tanti giri che mi videro recitare la parte del pavone vanitoso.
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    Fu allora che le gambe (non certo la testa, che era per aria) mi portarono in chiesa, nel bel mezzo della Messa. Al momento della Comunione, ancora le gambe, mosse dall’incoscienza, mi spinsero a mettermi in fila. Quando fui davanti al Sacerdote, e lui – che non mi aveva riconosciuto, o forse perché ignorava che quella Comunione fosse per me proprio la “prima” – scandendo la formula ‘Corpus Christi’, adagiò l’Ostia Sacra sulla lingua che nel frattempo io avevo tirato fuori. Con quello della Comunione toccavo quota due, dopo il lontano Battesimo, quanto a Sacramenti ricevuti.
“Senza ’mi ti cunfessi, senza u vestitu iancu e c’a fascia ô grazzu, senza nughju ’i nui, com’an’òrfanu o ’nu trova-tellu...! Comu potisti ’rrivari a tantu, disgraziatu, cu quali coraggiu ?”. Con queste parole mia mamma mi fece un lisc’e busso lungo, e fu uno dei rari casi in cui superò in arrabbiature mio padre, al quale, comunque, decidemmo di nascondere la cosa per evitare una riedizione dell’Apocalisse, o la terza guerra mondiale. Benedetta innocenza ! Io non vedevo nulla di male in quello che avevo fatto. Mi lasciai andare a una recriminazione, condita da una parolaccia, solo quando, concludendo la sua filippica, mia madre urlò: ‘E poi, scemu chi non sì atru, perdisti i sordi e i rrigali dî parenti e ora no fari u grocculeiu’. Caspitina ! Quella sì che era una cosa grave ! Altro che grocculèhju ! Scoppiai in un pianto dirotto e le mie lacrime furono acqua sull’effimero fuoco dell’ira di mia madre, la quale, abbracciandomi forte, fece quello che non ha mai, neanche oggi, cessato di fare con me e con tutti: mi perdonò. Come vedi, combinai un vero disastro», conclusi, sorridendo.
   «A me, invece, sembra un episodio bellissimo, originale, una cosa più unica che rara e che sicuramente non dimenticherai mai» fu l’immediato e gratificante commento di Alice, al quale aggiunse: «Bel tipo tua zia..., ma poi li comprasti, i dolci?»
    «Veramente, li sta ancora aspettando... Con le mille lire mi comprai un paio di scarpe da pallone, che non fecero molta carriera. Qualche tempo dopo, furibondo per l’ennesima pagella disastrosa, mio padre le tagliò in due con l’accetta».
    Tutto sommato, aveva ragione Alice :"Qualcosa di originale, una cosa più unica che rara e che sicuramente non dimenticherai mai». E, infatti, dopo oltre mezzo secolo, lo ricordo ancora come fosse accaduto ieri e penso che smetterò di ricordalo solo quando rifarò, con tutti i crismi e come si deve, la mia Prima Comunione in Paradiso, ammesso che Lui mi permetterà e io avrò meritato, di arrivarci.