giovedì 18 giugno 2015

LA ‘BELLA SCRITTURA’ DI UNA GRANDE ‘MAESTRA DI SCUOLA’: MARIA BARLETTA

di Bruno Demasi
    Il comprensorio aspromontano è stato, e sotto tanti aspetti è ancora, avaro di mille cose, soprattutto della facilità dell’esistenza per intere leve di persone decimate prima dalla malaria, poi dall’ emigrazione, ma soprattutto dall’analfabetismo che un tempo rendeva la maggior parte della gente schiava di piccoli proprietari terrieri e di fattori senza scrupoli e oggi di sistemi politici e di potere che non a caso tendono a distruggere o minimizzare le scuole.
    Maria Barletta , venuta al mondo nel 1925 e scomparsa nel 2009, aveva capito tutto questo fin da quando, già da piccola, aveva deciso di intraprendere la carriera di insegnante di scuola elementare e di dedicare ad essa la parte sicuramente più consistente della propria esistenza, pur coniugandola in modo ottimale con i suoi impegni di sposa e madre, ma anche con la sapiente e discreta opera di Dama di Carità e di responsabile a vari livelli dell’A.C e del C.I.F.
    Aveva compreso subito che ogni attività di sviluppo sociale efficace non poteva prescindere da una robusta azione culturale di base che desse a tutti gli strumenti per capire e per esprimersi uscendo dallo stato di subalternità che nell’immediato anteguerra, poi nei tremendi anni dell’ultima guerra e quindi nel lunghissimo e difficile dopoguerra, interessava almeno il 90 % della popolazione di questi paesi e di queste campagne. Ma aveva compreso anche che, se è facile porsi a parole al servizio della società, non altrettanto facile è dotarsi di strumenti di pensiero e di cultura per poter lavorare bene e produrre seriamente al di là di tante esibizioni effimere e vuote di costrutto di cui la società attuale è ormai maestra.
    Ecco perché questa donna ebbe il gusto del sapere, soprattutto quello proprio della cultura umanistica, e dell’arte espressa nelle grandi opere del mondo classico e nei capolavori di pittura, scultura e architettura dei maggiori artisti italiani, ma non disdegnò mai l’umiltà di quei lavori domestici che, per essere ben fatti, richiedono una buona dose di accuratezza e precisione e che per tante generazioni di alunne hanno costituito la parte migliore del loro futuro corredo di spose e di madri…
    E in anni difficili per la scuola in questi paesi, Maria Barletta propugnò in modo convinto l’esperienza della Scuola a Tempo Pieno come elemento imprescindibile per l’educazione degli alunni ( erano ancora lontani i tempi della “buona scuola” fatta di parole o della nuova barbarie in cui si preferisce oggi lasciare per le strade il più a lungo possibile i bambini in età scolare) . E in questa magistrale esperienza si occupò di “Matematica moderna”, disciplina che, studiando con interesse, andava scoprendo con entusiasmo incredibile, tanto che, per procedere con maggiore sicurezza nel lavoro didattico, intratteneva una corrispondenza col prof. Luigi Campedelli dell’Università di Firenze.
    Ed erano non solo la stima, la fiducia e i consensi di colleghi e dei superiori a gratificare questa insegnante indimenticata, ma soprattutto la fiducia e la venerazione degli alunni e delle loro famiglie e di quanti conobbero e sperimentarono il suo atteggiamento capace di infondere speranza e ottimismo, determinato, affettuoso e aperto alle novità e ai vari problemi di bisogno che emergevano dal territorio, il cuore aperto “ e le mani pronte al dono”.
    D’altronde la regola di Maria Barletta era semplice e lapidaria: non si può insegnare agli altri ciò che non si conosce né si può confondere l’arte della “maestra” come un ripiego del quotidiano o una parentesi tra altre attività. L’insegnante è insegnante. E lo è nell’aula scolastica come nella vita quotidiana, lo è davanti ai visi puliti di bambini innocenti, e in gran parte poveri, alla ricerca della propria vocazione di donne e uomini onesti e di madri e padri di famiglia, come davanti ai visi segnati dalla fatica di tanti lavoratori e tante giovani e meno giovani mamme che per tutta la loro vita nella maestra di scuola fissavano indelebilmente il modello della loro stessa esistenza, fatto di serietà, dignità ed eleganza pur nell’abbrutimento della fatica quotidiana.
    Era dunque questa l’arte della maestra vera: nutrirsi per nutrire, educarsi per educare, imparare per insegnare. Un’allegoria formidabile della figura materna, ma senza retorica sdolcinata e senza concessioni alle adulazioni.
    Lo rivela anche l’arte della “Bella scrittura”, nella quale Maria Barletta eccelleva come insegnante, ma anche come autrice di belle pagine di storia e cultura locale o, a maggior ragione, di poesia. Poche pagine, per la verità, se è vero come è vero che la qualità è sempre inversamente proporzionale alla quantità o, peggio, alla ricerca di consensi.
    La “bella scrittura”, sulle righe dei quaderni come su quelle della vita, è per la maestra la sublimazione del meglio di sè e della ricerca della perfezione nei compiti degli allievi che, attraverso quest’arte antica, apprendono i canoni dell’ordine, dell’armonia, del gradevole e del pulito  in tutte le dimensioni della vita e non li abbandoneranno più, ma è anche nella pagina di Maria Barletta un corposo esercizio di sintassi e di bello scrivere, una rievocazione storica che diventa racconto avvincente e  traduce  nella freschezza austera della parola grandi sentimenti, come si può riscontrare nel pezzo che ella scrive sull’origine del culto di Maria SS.ma Annunziata in Oppido, che qui riporto. 
    E lo è , a maggior ragione , nelle sue liriche, una delle quali chiude in bellezza questa pagina, rimaste quasi tutte inedite, nelle quali non solo riesce a condensare il meglio della sensibilità di generazioni di poeti da lei “seminati” tra i banchi, ma dà vita a una poetica del tutto personale perfettamente aderente allo stile della sua stessa vita senza concessione alcuna alla superficialità, improntata alla serietà assoluta nella ricerca e nell’esercizio quotidiano del Bello e del Buono come binomio inscindibile dell’esistenza.
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ORIGINE DEL CULTO DI OPPIDO ANTICA PER LA SUA CELESTE PATRONA:
  LA  VERGINE ANNUNZIATA

   Da tempo immemorabile, forse da quando è nata la loro storia, gli Oppidesi onorano la Vergine
sotto il celeste titolo di Annunziata.
   Non fu un titolo nato, come tanti altri, da una pia credenza; non fu una leggenda che potè avere origine da qualche fatto miracoloso o da qualche celeste apparizione. Fu solamente il grande avvenimento della storia da cui ebbe origine il Cristianesimo, fu la contemplazione dell’augusto mistero dell’Incarnazione che indusse i nostri avi ad onorare e salutare la Vergine come la salutò nell’umile casa di Nazareth l’Angelo, messaggero dell’Altissimo.
   Tra le città calabre che, secondo un autorevole scrittore, tennero in onore il culto della Vergine Annunziata, Oppido fu la prima che pose sotto l’alto Patrocinio della Madonna non solo la città ma anche la sua Diocesi.
   Padre Fiore da Cropani, che scrive nel XVI secolo, narra che l’antichissimo prodigioso quadro della Vergine salutata dall’Angelo veniva collocato sopra il maggior altare del tempio, sempre velato da un serico drappo e mostrato ai fedeli una sola volta all’anno: il 25 marzo. Quel giorno vi era nella città la fiera con grande concorso di gente d’ogni paese, come avviene pure ora, sebbene in tono minore.
   La descrizione del momento in cui, in quel giorno solenne, veniva svelata la Sacra Immagine ha toni commoventi. Il tempio era rigurgitante di folla, era presente il Clero di tutta la Diocesi che contava dodici conventi, mentre le campane delle sette chiese (tante ne conteneva la vecchia città) e le artiglierie del Castello (i cui ruderi sono ancora visibili) annunciavano fastose il grande avvenimento e facevano balzare il cuore in petto a tutti i cittadini. I contadini che si trovavano ancora per la strada si prostravano col viso per terra, mentre i viaggiatori a cavallo smontavano da sella e si ponevano in ginocchio.
   Molto più tardi, nel XVIII secolo, venne istituita, per solenne voto municipale, e celebrata una seconda festa nell’anno in onore della Vergine Annunziata (fu la Festa della Gratitudine) e questa volta per un fatto miracoloso, poichè la fede dei nostri padri fu tale che la Vergine, implorata in momento di sovrumano dolore, non disdegnò di ascoltare le suppliche del suo popolo e di operare il prodigio. Antiche cronache ricordano quel fatto prodigioso.
  Si era nel 1743, anno in cui a Reggio infieriva la peste, e i deputati cittadini di ritorno da Reggio per una missione politica portarono il contagio. Tutte le precauzioni di ordine sanitario furono prese per evitare il flagello; malgrado ciò in Oppido regnava il terrore. Quando scoppiò il primo caso, un brivido di spavento corse per la città. Si pregava, si piangeva e, fra tanto sconforto, una sola speranza restava: il ricorso alla Vergine protettrice. Venne scoperta la Sacra Immagine e tutto il Clero e il popolo riuniti nel tempio supplicavano a gran voce. Terminata la preghiera, a notte avanzata, mentre il popolo era ancora sotto l’incubo spaventevole, venne denunziata una seconda vittima e poi ancora un’altra. Lo spavento e l’ansia furono incredibili ma la Madonna vegliava sui suoi figli.
   Il monatto, un tale Demana, passando col carro funebre, con la terza vittima, dinanzi a una statuetta della Vergine Annunziata, posta poco lontano dalla seconda porta della città vecchia, in uno slancio accorato di fede, fissando la Madonna esclamò: “O Maria, fate che sia l’ultima!”. In quell’istante si ruppe il carro ed una delle ruote si poggiò al pilastro che sorreggeva la statuetta, mentre l’altra si disperse rotolando per la china. Il morbo scomparve e la terza vittima fu proprio l’ultima. Ai piedi del pilastro venne poi incastrata la ruota a ricordo del prodigioso avvenimento che, affidato alla tradizione popolare, venne poi narrato dai nostri scrittori di cose patrie.
(Maria Barletta)
                                                                              
Amo la vita,
le cose vissute,
quelle che vivo…
ne vivrò di altre?
Di quelle mi resta il rimpianto
per ciò che non ho fatto…
mentre il ricordo più dolce
è per le poche
col cuore condotte.
Ora più intenso
avverto lo stupore
di vivere il tempo che fugge.
Mi invade la stanchezza
                                                                              ma ritorno ancora sui miei passi
                                                                                  per cogliere un gesto d’amore,
                                                                                      per regalare un sorriso.
 
                                                                                  ( Maria Barletta )