giovedì 30 luglio 2015

LA PIANA DEI POVERI, DEI MIRACOLI E DEI SANTI: FANTINO IL GIOVANE

di don Giuseppe Papalia e Bruno Demasi

  L’equazione povertà – santità è tutt’altro che sporadica nell’enclave cristiano, anzi  una costante senza distinzione di tempo e di spazio, una dimensione evangelica condivisa sebbene  non  affatto scontata. Nella Piana del Metauro però essa ha assunto fin dai primi secoli della diffusione del Cristianesimo una connotazione tutta propria che varrebbe la pena studiare per ridare alle radici cristiane di questa terra una dignità smarrita lungo i secoli e per ricostruirne la fisionomia fuori da ogni invenzione e da ogni marginalizzazione.
   Due grandi santi, appena ci si accosta a questa storia, ci si presentano in tutto il loro mistero e in tutto il loro splendore: Fantino “il Vecchio “ e Fantino “ il Giovane” , entrambi originari di quella Tauriana da cui si irradia la civiltà incredibile che permea e fa rifiorire in età cristiana questo grande lembo di Calabria già parzialmente colonizzato dai Greci qualche secolo prima. Erano entrambi dediti a mestieri umilissimi all’interno delle loro comunità : il primo (vissuto a cavallo tra il III e il IV secolo) cavallaro, il secondo (vissuto nel X secolo) vivandiere e guardiano; entrambi però accomunati a distanza di oltre cinque secoli uno dall’altro da un ardore di fede e di evangelizzazione fuori dal comune i cui esiti sono senza dubbio alcuno inversamente proporzionali alla straordinaria povertà e umiltà che caratterizza questi due giganti del Cristianesimo che hanno arricchito la Piana.
    Del primo Fantino, il Cavallaro , detto anche per antonomasia “il Taumaturgo” è stato detto e scritto tantissimo, anche se ancora tantissimo resta da dire e da scrivere.
     Di San Fantino il giovane, venerato nei paesi della provincia soltanto a Lubrichi (festa il 31 di luglio) e a Chorio di San Lorenzo, due piccolissimi paesi accomunati da storie sociali e da angustie geografiche molto simili, è stato scritto e detto invece pochissimo e varrebbe anche la pena sfrondare quanto è stato inventato e romanzato per riportare questa figura magnifica di uomo e di santo a quella realtà storica e di fede che è stata molto mistificata dal tempo, e non solo nei suoi confronti.
    Possiamo senz’altro credere che egli appena a otto anni fu affidato nella grotta di Melicuccà a Elia lo Speleota, dove ricevette subito lo stato di novizio e rimase per circa venti anni a svolgere gli umilissimi compiti di cuoco e custode dell’eremo pur di apprendere tutti i canoni e le difficilissime regole della vita monastica. 
    Alla morte di Elia egli abbandona il cenobio di Melicuccà e si reca nell’attuale zona di Aieta e Orsomarso, la rinomata plaga del Mercurion, terra di asceti e di santi che vi arrivavano da ogni dove dopo aver  lasciato radicalmente  tutto per donarsi completamente a Dio e alla sua contemplazione.
    Ma la sua missione lo chiamava ancora ormai ultraquarantenne, alla fondazione di vari monasteri, in uno dei quali accolse la madre e la sorella e in un altro il padre e i fratelli.
   Erano i monasteri oasi di pace e di operosità, oltre che di preghiera, nei quali si esplicava uno stile di vita austero e al contempo desideroso di conoscere, di studiare, di imparare e non a caso vari discepoli di Fantino , che faranno grande il Cristianesimo , e non solo di Calabria, come San Nicodemo e San Nilo, si formarono proprio nei monasteri da lui fondati e diretti.
    Un grande organizzatore dunque, una mente data a Dio e al suo servizio dalla lucidità e – diremmo - dalla modernità non comuni, benchè il desiderio primo di Fantino restasse sempre e solo quello di vivere in un eremo esercitando la penitenza, il digiuno.
    La sua agiografia è zeppa di prodigi di fede di ogni genere ascrivibili proprio alla sua vita integerrima che culminarono secondo la tradizione nei famosi quattro anni di deserto durante i quali, abbandonato il suo eremo dopo una terribile visione notturna, visse nudo vagando per grotte e monti, nutrendosi di radici e di bacche selvatiche in una dimensione di totale abbandono a Dio.
    E’ormai ultrasessantenne quando esausto, ma soprattutto debilitato dal decadimento dei monasteri da lui fondati a causa della rilassatezza dei costumi che progressivamente stava prendendo il posto dell’intransigenza che aveva dato loro vita, Fantino lascia le Calabrie e si imbarca per la Grecia, dove trascorre l’ultimo periodo della sua lunga esistenza visitando di continuo ogni luogo nel quale in quella terra si venerava la Madre di Dio e si adorava il Salvatore, nel cui nome, secondo una fama che presto si sparse intorno non solo all’Egeo, ma anche all’intero Mediterraneo, egli operava guarigioni di ogni sorta e prodigi di fede che accompagnavano tutte le sue predicazioni.
    Una fama che aveva raggiunto dimensioni incredibili all’atto della sua morte avvenuta, secondo la tradizione, nell’anno 1000 e moltiplicata da un numero impressionante di miracoli raccontati e registrati dopo la sua nascita al cielo.
    I secoli successivi offuscarono, anzi coprirono di oblio, questa grande storia di santità nella piana di Gioia tauro, ma la piccola lampada tenuta accesa nel villaggio aspromontano di Roubiklon ( oggi Lubrichi) già esistente subito dopo l’anno 1000, come documentato dal Guillou, ci consente oggi di parlarne e di riprenderla con tutta la commozione che essa  suscita. Specialmente quest'anno, quando l'immagine un po' convenzionale del Santo, rappresentata negli improbabili lineamenti della statua che vi si venera amorevolmente da oltre un secolo, viene attenuata ed arricchita dalla nuova icona che riporta a una  dimensione storico-estetica più realistica e veritiera  la figura del grande Fantino il Giovane, vero maestro di vita e di amore per Cristo in questa  terra.