venerdì 30 ottobre 2015

GLI EXPO DEL SUD E LO SPLENDORE DEI FLORIO

di Maria Lombardo
   Erano gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento che vedevano  un incredibile sviluppo imprenditoriale al Sud, ma anche la voglia, con i suoi  sontuosi Expo ante litteram,  di dire al mondo che la civiltà del passato, malgrado tutto, voleva rifiorire sulle stesse terre che oggi la spolitica del presente ha ridotto ad immondezzai a favore di quel Nord dove gli Expo attuali sono soprattutto fiere di clientele e macchinose giostre per succhiare soldi pubblici (Bruno Demasi).
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Chi si ricorda dei Florio, del fatto che erano originari dalla provincia di Reggio Calabria e  che in Sicilia, dove si erano trasferiti, avevano dato vita non solo a imprese per quei tempi insuperate, ma addirittura a due grandi esposizioni che ebbero come teatro Palermo ? Fu proprio in questa città che questi grandi imprenditori ante litteram diedero il via al primo “Salone Espositivo Nazionale” nel 1888.
Tutto aveva avuto inizio da un' idea lanciata da Ignazio Sanfilippo il 13 maggio 1888 proprio su un trafiletto del Giornale di Sicilia. Subito Ignazio Florio e Francesco Crispi, prendono al volo l'idea, stanziano un sostanzioso budget per avviarla ed i lavori in tempo reale vennero affidati al grande Ernesto Basile proprio nel vivo dei fasti architettonici con cui questo grande dotava la splendida capitale siciliana di esempi insuperabili di Liberty. 

   Il clima di crescita e di ottimismo che aveva caratterizzato i primi due decenni post-unitari era destinato comunque a scemare verso la fine del 1800. Afferma Rosario Lentini in un suo interessantissimo saggio dal titolo: ”Mercanti, imprenditori e artisti a Palermo nella II metà dell'800” sul tema dell'Esposizione Nazionale che si svolse a Palermo nel 1891-1892: “Nonostante l'enfasi e la retorica che accompagnarono l'evento la borghesia locale non poteva celebrare alcun trionfo nei settori più avanzati dell'industria nazionale perchè il confronto con le aziende settentrionali rimarcava il divario crescente tra le due aree del Paese”. E ancora: “se il primo ventennio di storia unitaria aveva fatto registrare un andamento di progressiva crescita, sia in campo artistico che economico, dall'inizio degli anni '90 si assiste al rallentamento delle principali attività industriali e commerciali, mentre in controtendenza al declino dell'apparato produttivo si accentuava la capacità degli intellettuali e degli artisti e degli uomini di scienza di sviluppare iniziative e intrecciare solidi legami con gli ambienti culturali europei”(...) “anche casa Florio, dopo la morte del senatore Ignazio nel 1891, mostrava I limiti delle proprie scelte strategiche”.
    Effettivamente a fine esposizione venne tutto abbattuto. L'area prescelta coincideva con il "Firriato di Villafranca", un vasto agrumeto sul lato occidentale della via Libertà, un quadrilatero che si estendeva dalla strada dei Lolli – l'attuale via Dante – fino al piano delle Croci, delimitato a nord dall'attuale via La Farina e a ovest da via Villafranca. Era quella l'embrione di un quartiere residenziale in stile liberty, un vero affare. Così il principe di Radaly ottenne dal comune a fine Esposizione il permesso di lottizzarla. E ciò spiega come mai, a differenza di altre Esposizioni europee, a Palermo non sia rimasta alcuna traccia di quanto costruito negli otto mesi febbrili che precedettero l'inaugurazione. Un vero peccato poiché per molto tempo questa storia è rimasta rinchiusa sui polverosi scaffali della storia.

    Erano ben dodici i padiglioni in stile arabo-normanno, che da via Libertà si poteva accedere per visitare. Nel padiglione centrale si poteva ammirare il salone delle feste sovrastato da una grande cupola; per salire sul belvedere, a 55 metri d'altezza, Basile aveva previsto l'installazione di due ascensori idraulici con cabine in legno e vetro, capienza 20 persone, costruiti dalla milanese ditta Stigler. Su via Dante sorgevanono i padiglioni delle industrie meccaniche e chimiche; su via Libertà stavano le industrie tessili, metallurgiche, agricole e alimentari, oltre a mobili, ceramiche e vetrerie. In tutto settemila espositori.
    Era il trionfo di Palermo! Perchè dimenticare questa pagina storia?
    Indubbiamente i prodotti Florio inondavano i vari settori, dai vini alle macchine per le zolfare uscite dalla Fonderia Oretea, e per l'occasione venne anche presentato il nuovo cognac. Il Ministero dei lavori pubblici proponeva addirittura il progetto di un ponte in acciaio sullo Stretto ideato dall'ingegnere Angelo Giambastiani. Una rassegna speciale per l'elettricità contava 73 espositori: 35 nazionali e gli altri esteri. I visitatori accorsi in massa potevano assistere a mostre con "Sicilia monumentale", che riproduceva in scala i principali monumenti isolani; il Pitrè faceva conoscere l'etnografia dell'isola e si esponevano anche vari documenti in un tripudio che va ricordato.

    Su tutti dominava il padiglione delle Belle Arti, che con 720 dipinti e 301 sculture raccoglieva il meglio della produzione di quegli anni. Tra gli artisti presenti c’era Francesco Lo Iacono, che esponeva tre studi dal vero e tre dipinti: uno di essi,” L'estate”, venne comprato da re Umberto I e dalla regina Margherita arrivati a Palermo per l'inaugurazione.
    Ad allietare la città e i suoi ospiti vennero allestite gare di tiro a segno, fuochi d'artificio a profusione, concerti tzigani, balli in maschera, tornei di scherma, gare fra bande musicali, corse di cavalli, ascensioni in mongolfiera con esibizioni al trapezio proprio sopra l'area dell'Esposizione. Lo spettacolo più sorprendente fu la Corrida de Toros, in un anfiteatro allestito dove è oggi Villa Bonanno, con tori, toreri e anche cavalli arrivati direttamente da Barcellona. 

    Nel 1902 nei pressi del Giardino Inglese verrà invece organizzata l”Esposizione Agricola Siciliana”: attraverso un costante utilizzo dell'illuminazione elettrica si diede vita a un'importante avvio di opere per sfruttare questo tipo di energia. Questa esposizione settorial durò dal 26 maggio 1902 al marzo 1903 ed ospitò anche manifestazioni sportive. Era stata inaugurata dai Sovrani Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia, giunti da Napoli alle ore 9 del mattino del 26 maggio a bordo dello yacht reale “ Trinacria" comandato dal capitano di vascello Ricotti e alle ore 14 dello stesso giorno venne aperta al pubblico. I padiglioni, visto il successo dell'Esposizione del 1881, furono affidati a Valenti e Basile, figlio di Ernesto. Un’ ppendice dell'esposizione fu voluta a Marsala dove si parlò solo di vini. I Reali visitarono l'Esposizione in forma privata ed il 28 maggio assistettero al parco della Favorita al Torneo storico che rievocava l’arrivo in Sicilia di S.E. don Giovanni d’Austria dopo la vittoria di Lepanto del 1572 . La coppia regale lasciò la città il 30 maggio alle ore 15 scortata dalla squadra navale inglese, dopo avere assistito ad un’imponente parata navale alla quale avevano partecipato le squadre italiane ed inglesi e dopo avere presenziato ad una serata di gala al Teatro Massimo di Palermo. Al ritorno a Roma il Re insignì il Sindaco di Palermo della Croce di grande Ufficiale ed elargì la Commenda al Cavaliere Alessandro Ardizzone, presidente dell’Esposizione e all’Onorevole Pietro Lanza di Scalea, presidente onorario della stessa. E’ da ricordare che in quella occasione venne organizzata anche una mostra di cartoline illustrate che riscosse grande successo.

venerdì 23 ottobre 2015

La penna del Greco: DUE BIGLIETTI PER BAGNARA…

di Nino Greco
  La vis  bagnarota della burla trapiantata sull'Aspromonte e i suoi effetti inattesi di  nemesi familiare: un altro inedito da gustare tutto d'un fiato...(B.D.)
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    Don Carmelo si era trasferito con tutta la famiglia, il Ministero della Giustizia gli aveva assegnato come sede di lavoro la Pretura di Oppido e aveva lasciato così Bagnara. Non era stato facile abbandonare le rive della Costa Viola; quel mare superbo e la sponda calabra di quello scorcio di mondo che da sempre porta in grembo il mito della Fata Morgana, ma tanto era: doveva seguire il corso della carriera e rimanere aggrappato a quel lavoro d’impiegato. Pane sicuro per lui, per la moglie e per la nidiata di figli. Ne contava nove, venuti al mondo in rapida sequenza. Solo il tempo della sterilità naturale segnava il passo e la differenza di età tra loro. Tutti maschi, tranne la penultima. Quando poteva, sgravava la moglie dal baliamento e si portava con sè qualcuno dei pargoli, perlopiù nelle ore vespertine, quando con altri amici si beava del tempo dell’ozio in libera goliardia, seduto in Piazza grande ai tavoli del Bar Sella o in Piazzetta sotto la magnolia o davanti al Bar Feis.
    Indole all’apparenza controllata, mai una sgarbatezza, sempre cordiale e con un filo di sorriso disegnato sulle labbra; tantoché quando parlava o raccontava qualche aneddoto, non appariva chiaro se stesse o meno cugghjuniandu. Il tono amabile e l’eleganza delle narrazioni lo rendevano sempre attendibile. Lui ne abusava e spesso si beffava di tutti.
   Sì, tutti. Non esisteva limitazione.
   Il gusto era proprio questo: un’occasione di coglionella non poteva essere sprecata per eccesso di riguardo alla probabile vittima, era una condizione che sdegnava. Quando c’era da beffeggiare era da fare e basta, senza remore e senza riguardi per nessuno.
    L’aria che si respirava intorno a lui era quindi goliardica, carica di leggerezza e foriera di carrette.
   Così i figli crescevano all’ombra delle sue goduriose trame; specie Mico e Benito, i più presenti alle sue sortite di piazza, i due più grandi e i più scavezzacollo dei nove. Anche loro, ormai, iniziavano a mostrare senza ritegno i tratti di burloni e sulla scia di cotanto genitore non potevano palesarsi altrimenti; sicché, quando capitava, non si tiravano indietro se nella rizza ci doveva finire anche il padre.
    Nei loro tratti ereditari (s’intende in padre e figli) spiccava la voglia di vivere quel sogghigno di traccia selvatica, come la iena che sa della sua vittima e mostra i denti con la classica risata impietosa, volendo cogliere nello sguardo della stessa l’effetto della carretta o della cugghjunella; provando, nello stesso momento, il piacere di sbandierare la paternità della beffa.
    Era così Don Carmelo. Crescevano così anche i suoi figli. 
    Di tanto in tanto andava Bagnara; là, in quelle costere, destre di suli e mamme di zibibbo, in quei terrazzi caldi come culle per viti e grappoli saturi di tinta oro come solo settembre sa ritoccare vivevano gli anziani genitori e lui sia per dovere filiale sia per l’affetto che lo legava al paese, ci tornava spesso. 
    Una calda mattina di giugnettu Don Carmelo salì su l’autobus che portava a Gioia Tauro e si sedette accanto a un suo amico nei due posti dietro l’autista; suo figlio Mico invece si era subito messo all’opera ciondolando su e giù per il corridoio del bus a ‘nzurtari a destra e manca quei pochi passeggeri che come loro dovevano andare a Gioia Tauro. 
   Erano passati più di venti giorni dall’ultima volta che si era recato a Bagnara e quella mattina aveva deciso di portare con sé il figlio. La scuola era finita da un pezzo e lasciarlo, da spatagiacca, a zonzo per il paese sarebbe stato un azzardo. Mico ormai non stava paru i nuja manera, era nello sviluppu e attingeva a piene mani da ciò che il padre in quegli anni gli aveva mostrato senza lesinare: scherzi, burle e canzonature.
    Dopo quasi un'ora di tornanti, discese e rettifili, dopo aver fatto scalo a Messignadi e Varapodi, passando per Amato, il pullman si fermò davanti alla stazione di Gioia. Scesero tutti.
    Don Carmelo aveva chiacchierato per tutto il viaggio e si stava intrattenendo ancora col suo amico; il treno locale per Reggio sarebbe passato dopo venti minuti e c’era tutto il tempo per finire la chiacchiera e per bere anche un caffè. Si avviarono verso il Bar Stazione.
- Due caffè – ordinò Don Carmelo
-Mico ! Vuoi i biscotti o le cingomme? – domandò ancora al figlio che già stava smaniando dentro e fuori dalla porta del bar.
- Le cingomme !– rispose Mico
    Il barman/proprietario del bar diede le cingomme a Mico e servì i due caffè con lo stesso taglio di pigrizia con cui si era scervellato a cercare il nome per il suo bar.
   I due amici stavano ancora sorseggiando quello che sembrava più un surrogato che un caffè, quando Mico tirò per la giacca suo padre e disse:
- Papà, per fare prima, dammi i soldi, vado a fare i biglietti!
    A Don Carmelo parve una cosa di buon senso, anche se arrivava dalla bocca di Mico: lui avrebbe potuto continuare a scambiare le ultime chiacchiere con l’amico mentre il figlio avrebbe fatto la fila in biglietteria.
    Tirò fuori dal portafoglio cinquecento lire e disse:
- Fatti fare due biglietti per Bagnara, due costano trecento lire! Mi raccomando non sbagliare a chiedere.
- Papà, posso tenere il resto?- chiese Mico, con ammicco scaltro.
   Don Carmelo, preso ancora dal discorso col suo amico, con un cenno assentì più per tacitarlo che per altro.
    Mico corse verso la biglietteria e sparì dietro un nugolo di persone intente a scaricare bagagli.
    Una voce rauca lanciata dell’altoparlante annunciò:
   “ Allontanarsi dal terzo binario è in arrivo il treno proveniente da Lamezia diretto a Reggio Calabria, ferma a: Palmi, Bagnara, Villa San Giovanni “.
    Era un treno che arrivava dal Nord, a Lamezia una parte di carrozze veniva staccata, con deviazione verso Roccella Jonica, le carrozze rimanenti diventavano treno locale, della parte tirrenica, fino a Reggio Calabria.
    Mico sembrava fosse sparito, Don Carmelo con occhi lesti lo cercò in ogni dove, il treno era ormai fermo e del figlio non si scorgeva nemmeno l’ombra. Raramente si faceva cogliere dalla preoccupazione, ma in quel momento era preda di un forte stato di agitazione; e poi, quel disgraziato aveva con sé anche i biglietti!
    “Chi testa di rovaci! “ imprecava sottovoce e incazzato. Si era già pentito di esserselo portato dietro.
    Mentre meditava queste considerazioni, condite con qualche inenarrabile e strozzata bestemmia, udì:
- Papà ! Papà ! - Urlò Mico, mentre, sorridendo, si sporgeva da un finestrino del treno. 
  Lo vide, lo folgorò con lo sguardo e si appressò a salire anch’egli. Trovò posto e mentre si stava per accomodare, giunse Mico.
  - Pezzo di ‘ndegno! Siedi qua ! – comandò Don Carmelo, più per scaricare l’incazzatura che per altro. Mico sorrise, disattese, e se la svignò, sparendo dietro la porta che separava l’altro vagone, col ghigno raggiante per aver fatto prendere uno spaghetto al padre. 

   Le quattro carrozze si mossero, venti minuti di corsa tra gallerie e affacci sul mare poi terrazzamenti dei vigneti, quindi Bagnara.
    Mico era così e Don Carmelo lo conosceva bene, era un moto perpetuo, mai un attimo di pacatezza, e lui glielo ripeteva sempre:
- Mico! Tu quandu no ccatti pattiji! –
   Già, aveva sempre qualcosa da inventarsi, non stava paru ‘i nuja manera.
   Erano appena andati via i primi dieci minuti di viaggio e Don Carmelo si era rasserenato.
    Mico non si era ancora fatto vedere e suo padre, nonostante pensasse che fosse mosso dall’artetica, lo riteneva capace di guardarsi dai mali pericoli. Con benevolenza paterna accoglieva i suoi eccessi e molto spesso li benediva, specie quando erano rivolti ad altri.
   Don Carmelo alzò gli occhi, la porta che separava i due vagoni si aprì, comparve Mico, il volto meno sorridente del solito e alle spalle il controllore. I passi, condizionati dall’andamento del treno, erano malfermi. Don Carmelo buttò lo sguardo dal corridoio e incrociò quello di Mico, lui non fece accenno né sorrise e quando fu a pochi passi da suo padre gli chiese ad alta voce:
- Don Carmelo! Vidistivu a me patri!
   Fu in un attimo che capì che Micu l’aveva combinata grossa, intuì che non aveva fatto i biglietti per tenersi i soldi. Solo chi conosce la natura del burlone è in grado di individuare e annusare i suoi simili; e così Don Carmelo senza scomporsi e senza perdere la calma bastante rispose:
- Tuo padre? E’ avanti ! Avanti ! – facendo segno con la mano di scorrere, di andare oltre, e quando fu vicino a lui, lo raggelò con gli occhi; Mico non si scompose, fece un sottile sorriso e proseguì, seguito dal controllore, nella ricerca di quel padre degenere, per farsi dare e punzonare quei biglietti che lui non aveva mai comprato. 
   Di quel padre che ora pensava seriamente “Cu simina spini non poti caminari a scaza!”

mercoledì 21 ottobre 2015

IL SUD NASCOSTO TRA STRACCI E MILIARDI

di Bruno Demasi
Se i servizi dei giornali di De Benedetti potessero squittire come fa la Gruber quando ha ospite Matteo Renzi canterebbero peana ad altissimo volume a questo governo, votato da nessuno, per celebrarne i fasti meridionalistici e le spremute di sudore che esso colleziona quotidianamente per affrontare i mali del Sud.
    E’ di qualche giorno fa la copertina dell’Espresso che parla di Un Sud scomparso, fagocitato dai mali atavici, naturalmente sempre perpetrati da altri e che il governo attuale, accettando questa “bella sfida” dovrebbe sanare.
    Lo stracciamento di vesti dei giornali debenedettiani è invece direttamente proporzionale al totale menefreghismo dell’esecutivo attuale che proprio al Sud sta dedicando la creme brulé maleodorante del suo totale disinteressamento per il Sud o, peggio, i puntelli traballanti di sindaci e governatori regionali toccati all’ala e impossibilitati a governare, fiumi di miliardi di fondi europei che continuano a restare congelati o spesi in allegre cavolate di squisito fumo, prefetti che nella grande maggioranza dei casi sono completamente assenti sul territorio, imprenditoria locale ed agricoltura ormai sepolte sotto una coltre di sporcizia morale che l’Espresso fa intravedere solo di striscio.
    Il quadro è senza dubbio disastroso, e non doveva dircelo il settimanale che un tempo agitava ben altri problemi con ben altra serietà, ma non ci stiamo ugualmente a questi scandalismi da quattro soldi che servono soltanto a far apparire come sovrumano sforzo di governo il niente che viene donato alle nostre regioni, prede di mille appetiti, forzieri di enormi ricchezze per pochi o pochissimi, contenitori di stracci politici e non che neanche l’inceneritore di Gioia Tauro riuscirebbe mai a fagocitare nonostante sia di bocca buona e non mandi indietro nulla… 
    Sappiamo quali sono i mali atavici della nostra terra che da oltre un secolo e mezzo è appiccicata con la saliva al resto della Penisola, ma uno fra tutti ci è particolarmente odioso e intollerabile: gridare allo scandalo per i problemi creati sempre  da altri solo per avere altre opportunità di stanziare e far divorare nuovi miliardi ai soliti noti con la scusa di alleviare il male del Mezzogiorno...
   E  i relativi appetiti.

sabato 10 ottobre 2015

LA CASACCA CANGIANTE DI ALESSANDRO NUNZIANTE

di Maria Lombardo
   Un'altra bella pagina di ricerca storica dell'instancabile Maria Lombardo.
   Una storia apparentemente banale, anche se truculenta, quella di Alessandro Nunziante, ma sicuramente molto sui generis.
   Nacque a Messina, figlio di secondo letto di Vito e, come i suoi avi, intraprese la carriera militare fino a divenire colonnello nel 1846 . Attaccatissimo alla Corona, ricoprì cariche importanti e ottenne a larghe mani vari premi e prebende sia da Ferdinando II che da Francesco II, riuscendo a diventare influentissimo a corte e intimo del Re tanto da soccorrerlo in diverse occasioni, come ci racconta il De Cesare . Era con ogni evidenza cinico e senza scrupoli , sicchè nessuno si meravigliò più di tanto quando venne etichettato come traditore dei Borbone, lui che aveva represso col sangue i moti contro questi ultimi, ma che al momento della loro capitolazione non esitò a passare coi Piemontesi.
    Intraprese molti viaggi, tra cui quello in Calabria il 20 ottobre del 1852, quando Ferdinando visitò le Calabrie. Il De Cesare ci riferisce che egli, in una di queste occasioni, trovandosi a Reggio nel palazzo dell' Intendenza, essendosi accorto che vi erano personaggi tacciati di liberalismo, senza salutare iniziò a prendere a calci una porta in modo furioso. E c'è anche chi ricorda che sempre a Reggio racconta, all'uscita dal Duomo, un certo Pellicano detto Paddazza si avvicina al Re mostrandogli un pane di pessima qualità gridandogli:” Maestà questo è il pane che mangia il popolo”. Davanti a questa scena, il Nunziante fece arrestare il Reggino e ordinò di arrestare chiunque si avvicinasse al re.
    La carrellata di episodi prosegue con l’episodio occorso di ritorno dal viaggio a Reggio: il Re nei pressi di Pizzo desiderava andare a visitare Mongiana, ma veniva dissuaso con decisione da Alessandro. Il Re si corrucciò di questa situazione e decise di salpare subitto per Napoli, ma il Nunziante esclamò:” Maestà, noi vi seguiremo ovunque, anche a costo della vita”.     Una fedeltà cristallina che però iniziò a vacillare quando, deceduto lo zar di Russia, Ferdinando, affidò in principio a lui l'incarico di guardia personale, ma poco tempo dopo glielo tolse per affidarlo allo Steiger. Il Nunziante non si dimenticò mai di questo volta faccia, ma finchè il Borbone visse lo servì umilmente senza avere idee liberali.
    Morto Ferdinando, gli successe il giovane e timido Francesco che non riuscì a reggere le sorti del paese. Si affidò nel governo a uomini” fidati” tra cui Alessandro Nunziante che consultava in ogni esigenza.
Alessandro fu persino organizzatore dell'Ottavo Battaglione Cacciatori tanto per intenderci, successe però che la fazione svizzera si ammutin ed egli venne chiamato a reprimere il moto: lo fece nel sangue. Causò 80 morti e 200 feriti una situazione che in quella occasione fu sinistra . 
  Nel giugno del 1860 la causa borbonica era ormai al collasso quindi il re cercava di correre ai ripari circondandosi da uomini energici, tra questi le 5 persone di fiducia: Nunziante, Romano, Lanza, Pianell, Clary.
    Malgrado ciò, il Nunziante, stufo della debolezza di francesco, non esita poco tempo dopo a cambiare casacca a favore dei Piemontesi.In tale occasione restituisce al Sovrano diplomi ed insegne e così fa la moglie ed esorta i suoi uomini ad unirsi:” alla gloriosa patria italiana” che prima definiva filibustieri.
    Diviene così lui l'arcitraditore indiscusso. Per scampare a possibili vendette, scappa in Svizzera, ma dopo pochi giorni viene richiamato dal Cavour a servire la causa italiana e i Savoia lo ricompensano con una valanga di cariche e opportunità. Riuscì persino a divenire senatore e pubblicò un piccolo opuscolo che fece molto rumore sulla gestione della guerra. Si spense a Napoli nel 1881, lasciando alla storia dell’Italia una storia personale tanto tumultuosa quanto contraddittoria e ambigua.

sabato 3 ottobre 2015

RITROVARE “LA TANA DEL FAJETTO”

di Nino Greco
    Ci sono delle sensazioni, percorrendo a piedi le balze dell’Aspromonte, che ti impregnano il naso, il cuore e il cervello, ma dopo poche ore spariscono lasciandoti il vuoto, il rammarico di non aver saputo custodire un che di inafferrabile e di tuo, della tua gente, della terra che ha guidato i tuoi primi passi e che non avresti voluto perdere. Ma il ricordo di queste sensazioni aspromontane rimane sempre ed è sempre pronto a riaffiorare quando meno te lo aspetti con gli stessi contorni, le stesse voci, gli stessi odori che pensavi di avere smarrito lontano dalla tua terra. 
   La prosa di Nino Greco è sicuramente una di queste occasioni evocative nelle quali, solo leggendo, ti pare di respirare davvero la tua terra, un passato che ridiventa subito presente, un ricordo che è già fissato indelebilmente nella tua carne.
   Lo è per quel quid di inspiegabile animo aspromontano che riesce a ridarti ; lo è anche per il tessuto espressivo che nella sintassi e nel lessico ti ripropone, mondo da ogni ridondanza, il parlare di questa terra attraverso le espressioni vive della gente e le descrizioni che, se facessero a meno di certi termini, diverrebbero scialbo esercizio letterario fine a se stesso.
   Non è il dialetto usato dal  letterato di mestiere che te lo presenta in un virgolettato o in un corsivo da studioso improvvisato di antropologia e non è nemmeno una faticosa rimasticatura delle nobile sintassi popolare in forme più accomodanti e rispettose dei canoni. E’ una lingua a sé, una simbiosi eloquente di parlato e di scritto che rende “La tana del fajetto” il già fortunato e conosciutissimo romanzo di Nino Greco, un unicum stilistico, un esempio bello di quella “Letteratura dell’Aspromonte” verso la quale Mario La Cava e Saverio Strati tendevano tanto.
    Come si può rinunciare a leggere di un fiato quest’opera tanto innovativa , della quale riporto qui una parte del IX capitolo? (Bruno Demasi)
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   Micu l’Orbu fu puntuale, giunse al pozzo secco alle tre e mezza, mezz’ora avanti dall’ora concordata con Angelo, Ntoni e Nino Condina. Era una notte di leggera chiarìa. La luna, più della mezza, si nascondeva e riappariva mutando la scena tra le nuvolate che scendevano dal levante. Un delicato vento filtrava tra le canne e le smuoveva piegandole. Il fruscìo delle fronde e il tuffo dell’acqua nei piccoli salti rompevano il silenzio di una fiumara algida e muta, scrigno inviolabile d’interessi, miserie, conflitti e speranze.    Angelo, la sera prima, con passo caprino, si era inerpicato fin lassù, nel costone, nella tana del fajetto. Lì nel tufo dove, anni prima, aveva trovato la “sua” pistola; primo vero segreto della sua vita e l’inizio di tante trame e catriche.
   Si era impossessato di quell’arma con voluttà, come un bimbo di un giocattolo. E il gioco era partito come una ruota spinta da un volano privo di ganasce. Veloce come il rojo in discesa, furioso come l’acqua di quella fiumara, quando in pieno inverno diventa travolgente e imprevedibile.
    Aveva aspettato il buio, non aveva detto nulla a nessuno e aveva riposto al sicuro la vecchia e lucida Luger nel posto dove l’aveva trovata. La sentiva sua, testimone dei suoi passi sin da quando aveva iniziato ad agire col suo codice. Non aveva voluto lasciarla né a suo suocero né a Santo Gallace. Quello era il posto sicuro: il suo. Nessuno si sarebbe avventurato fin lassù. Quasi due anni di separazione. Da soldato avrebbe avuto altre armi. Lì si sarebbe misurato con nuove situazioni, avrebbe imparato a muoversi in ambienti diversi; niente cabelle, annate, molitura e orti; una vita nuova, un canovaccio lontano e diverso dal suo.
   Pensieri profondi accomunavano i tre amici. Il destino li aveva voluti compagni d’armi almeno fino al periodo dell’addestramento; poi chissà in quale città e in quale garitta avrebbero fatto la guardia tutti sotto lo stesso cielo carezzati dallo stesso vento e legati dallo stesso animo. Li attendevano mondi nuovi fino a quel momento solo immaginati e ascoltati nei fatti raccontati da chi era stato in guerra. Loro non andavano in guerra. Per loro era la prima avventura oltre Boscaino.
    Qualche volta avevano visto Gioia Tauro, ma non erano mai saliti su un treno. Angelo lasciava a casa la moglie e un velo di tristezza copriva i tratti del suo acerbo volto di uomo. Ntoni e Nino Condina avevano aspettato la partenza con l’ansia e gli occhi di chi vede per la prima volta il mare. 
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   Il traìno si mosse. La lampa a olio, legata sotto uno degli assi del carro agganciati al basto, dava esile luce fino al muso del vecchio cavallo; una tavola logora, il sedile di Micu l’Orbu; seduti dietro e accucciati, con le spalle appoggiate alle sponde, i tre amici. Tre sacchi di zombàra, mutati a zaino, erano i loro bagagli. Gli occhi carichi di sonno dicevano quanto era stato difficile chiuderli e dormire. Il pensiero di svegliarsi per tempo, l’ansia e le mille domande, che non trovavano risposta, avevano allontanato il sonno. L’unica cosa certa: il treno da Gioia Tauro fino a Santa Eufemia e poi il cambio per Catanzaro: lì qualcuno li avrebbe aspettati.     Il loro silenzio si sommava a quello della campagna, le teste ciondolanti si erano lasciate andare alla stanchezza con la complicità del dondolio del traìno. Un vaporoso sonno dava loro l’impressione di riposare, ma bastava di tanto in tanto un sasso pizzicato dalle ruote per farli sobbalzare insieme ai bagagli e al loro cuore.
    La luna era fuggita, l’ultima nuvolata levantina aveva negato il chiaro scuro bastante per spegnere la lampa. Il cavallo andava a mente, solo ai crocevia Micu l’Orbu faceva sentire la briglia ora destra ora sinistra per indicare la direzione. Il frustino di nerbo bue sempre in mano e mai schioccato diceva chi comandava il viaggio. I primi bagliori di fuoco, acceso tra gli uliveti di Gagliardi, avvertivano del nuovo giorno; mulattieri, in groppa ai muli, si apprestavano ai nuovi carichi. Si era in piena annata. Il fumo dei cumuli di foglie messi a bruciare sparsi qua e là tra gli ulivi rendeva con le prime luci dell’alba il paesaggio surreale, l’odore acre ne riempiva l’aria e dava ai tre amici la sensazione di essere ancora a Boscaino.