sabato 3 ottobre 2015

RITROVARE “LA TANA DEL FAJETTO”

di Nino Greco
    Ci sono delle sensazioni, percorrendo a piedi le balze dell’Aspromonte, che ti impregnano il naso, il cuore e il cervello, ma dopo poche ore spariscono lasciandoti il vuoto, il rammarico di non aver saputo custodire un che di inafferrabile e di tuo, della tua gente, della terra che ha guidato i tuoi primi passi e che non avresti voluto perdere. Ma il ricordo di queste sensazioni aspromontane rimane sempre ed è sempre pronto a riaffiorare quando meno te lo aspetti con gli stessi contorni, le stesse voci, gli stessi odori che pensavi di avere smarrito lontano dalla tua terra. 
   La prosa di Nino Greco è sicuramente una di queste occasioni evocative nelle quali, solo leggendo, ti pare di respirare davvero la tua terra, un passato che ridiventa subito presente, un ricordo che è già fissato indelebilmente nella tua carne.
   Lo è per quel quid di inspiegabile animo aspromontano che riesce a ridarti ; lo è anche per il tessuto espressivo che nella sintassi e nel lessico ti ripropone, mondo da ogni ridondanza, il parlare di questa terra attraverso le espressioni vive della gente e le descrizioni che, se facessero a meno di certi termini, diverrebbero scialbo esercizio letterario fine a se stesso.
   Non è il dialetto usato dal  letterato di mestiere che te lo presenta in un virgolettato o in un corsivo da studioso improvvisato di antropologia e non è nemmeno una faticosa rimasticatura delle nobile sintassi popolare in forme più accomodanti e rispettose dei canoni. E’ una lingua a sé, una simbiosi eloquente di parlato e di scritto che rende “La tana del fajetto” il già fortunato e conosciutissimo romanzo di Nino Greco, un unicum stilistico, un esempio bello di quella “Letteratura dell’Aspromonte” verso la quale Mario La Cava e Saverio Strati tendevano tanto.
    Come si può rinunciare a leggere di un fiato quest’opera tanto innovativa , della quale riporto qui una parte del IX capitolo? (Bruno Demasi)
____________________________
   Micu l’Orbu fu puntuale, giunse al pozzo secco alle tre e mezza, mezz’ora avanti dall’ora concordata con Angelo, Ntoni e Nino Condina. Era una notte di leggera chiarìa. La luna, più della mezza, si nascondeva e riappariva mutando la scena tra le nuvolate che scendevano dal levante. Un delicato vento filtrava tra le canne e le smuoveva piegandole. Il fruscìo delle fronde e il tuffo dell’acqua nei piccoli salti rompevano il silenzio di una fiumara algida e muta, scrigno inviolabile d’interessi, miserie, conflitti e speranze.    Angelo, la sera prima, con passo caprino, si era inerpicato fin lassù, nel costone, nella tana del fajetto. Lì nel tufo dove, anni prima, aveva trovato la “sua” pistola; primo vero segreto della sua vita e l’inizio di tante trame e catriche.
   Si era impossessato di quell’arma con voluttà, come un bimbo di un giocattolo. E il gioco era partito come una ruota spinta da un volano privo di ganasce. Veloce come il rojo in discesa, furioso come l’acqua di quella fiumara, quando in pieno inverno diventa travolgente e imprevedibile.
    Aveva aspettato il buio, non aveva detto nulla a nessuno e aveva riposto al sicuro la vecchia e lucida Luger nel posto dove l’aveva trovata. La sentiva sua, testimone dei suoi passi sin da quando aveva iniziato ad agire col suo codice. Non aveva voluto lasciarla né a suo suocero né a Santo Gallace. Quello era il posto sicuro: il suo. Nessuno si sarebbe avventurato fin lassù. Quasi due anni di separazione. Da soldato avrebbe avuto altre armi. Lì si sarebbe misurato con nuove situazioni, avrebbe imparato a muoversi in ambienti diversi; niente cabelle, annate, molitura e orti; una vita nuova, un canovaccio lontano e diverso dal suo.
   Pensieri profondi accomunavano i tre amici. Il destino li aveva voluti compagni d’armi almeno fino al periodo dell’addestramento; poi chissà in quale città e in quale garitta avrebbero fatto la guardia tutti sotto lo stesso cielo carezzati dallo stesso vento e legati dallo stesso animo. Li attendevano mondi nuovi fino a quel momento solo immaginati e ascoltati nei fatti raccontati da chi era stato in guerra. Loro non andavano in guerra. Per loro era la prima avventura oltre Boscaino.
    Qualche volta avevano visto Gioia Tauro, ma non erano mai saliti su un treno. Angelo lasciava a casa la moglie e un velo di tristezza copriva i tratti del suo acerbo volto di uomo. Ntoni e Nino Condina avevano aspettato la partenza con l’ansia e gli occhi di chi vede per la prima volta il mare. 
. . .
   Il traìno si mosse. La lampa a olio, legata sotto uno degli assi del carro agganciati al basto, dava esile luce fino al muso del vecchio cavallo; una tavola logora, il sedile di Micu l’Orbu; seduti dietro e accucciati, con le spalle appoggiate alle sponde, i tre amici. Tre sacchi di zombàra, mutati a zaino, erano i loro bagagli. Gli occhi carichi di sonno dicevano quanto era stato difficile chiuderli e dormire. Il pensiero di svegliarsi per tempo, l’ansia e le mille domande, che non trovavano risposta, avevano allontanato il sonno. L’unica cosa certa: il treno da Gioia Tauro fino a Santa Eufemia e poi il cambio per Catanzaro: lì qualcuno li avrebbe aspettati.     Il loro silenzio si sommava a quello della campagna, le teste ciondolanti si erano lasciate andare alla stanchezza con la complicità del dondolio del traìno. Un vaporoso sonno dava loro l’impressione di riposare, ma bastava di tanto in tanto un sasso pizzicato dalle ruote per farli sobbalzare insieme ai bagagli e al loro cuore.
    La luna era fuggita, l’ultima nuvolata levantina aveva negato il chiaro scuro bastante per spegnere la lampa. Il cavallo andava a mente, solo ai crocevia Micu l’Orbu faceva sentire la briglia ora destra ora sinistra per indicare la direzione. Il frustino di nerbo bue sempre in mano e mai schioccato diceva chi comandava il viaggio. I primi bagliori di fuoco, acceso tra gli uliveti di Gagliardi, avvertivano del nuovo giorno; mulattieri, in groppa ai muli, si apprestavano ai nuovi carichi. Si era in piena annata. Il fumo dei cumuli di foglie messi a bruciare sparsi qua e là tra gli ulivi rendeva con le prime luci dell’alba il paesaggio surreale, l’odore acre ne riempiva l’aria e dava ai tre amici la sensazione di essere ancora a Boscaino.