giovedì 30 aprile 2015

VECCHI E NUOVI TAGLI AGLI OSPEDALI E STRAVECCHI RAGGIRI CALABRESI

di Bruno Demasi

    L’edizione 2015 della telenovela sulla Sanità Calabra, ormai a corto di barzellette e favole da dare in pasto all’utenza , ha scoperto il nuovo filone della finta guerra intestina tra un commissario alla Sanità catapultato da Renzi in terra bruzia e un governatore che i più dicono come minimo incazzato col capo del suo piuomenopartito per non essere stato nominato lui a capo del carrozzone miliardario chiamato commissariamento.
    I duelli all’arma bianca tra i due, fuori dai territori di Twitter lasciati alla tastiera di Renzi et similia, proseguono da qualche mese a suon di proclami, di distinguo, si, però, benchè e nduja della peggiore qualità. Si giunge a toni rancidi e parossistici per poi adagiarsi in tregue da week end e quindi tornare subito a capricciosi  rilanci e battibecchi degni della migliore tradizione delle bagnarote di qualche decennio fa.
    Ma non ci crede ormai neanche l'ammagato della stella del presepe: i loro pellegrinaggi separati negli ospedali (soprattutto del Cosentino o del Catanzarese) farciti di toni sgomenti e di promesse da pollaio non incantano nessuno, come nessuno crede più alla loro presunta rivalità.
    I due però, malgrado tutto, sembrano ancora  convinti che i sudditi calabresi siano ancora tanto cretini da pensare che con il taglio dei pochi posti letto rimasti negli ospedali di tanti centri calabresi si possa risolvere il problema del pauroso debito accumulato dalla Sanità locale, quando ormai anche i neonati sanno che ben altri dovrebbero essere i tagli alla spesa sanitaria che non quello dei posti letto che già non garantiscono il minimo delle emergenze quotidiane, specialmente nei centri più isolati e a rischio, dove si vive di poco e si muore per pochissimo.
 Perché i due contendenti, anziché tergiversare e far finta di beccarsi, non procedono al recupero di un debito disastroso che sta continuando a lievitare grazie anche agli affitti d’oro che la Regione paga per garantire alla sanità in moltissimi centri della Calabria locali perfettamente inutili e agli appalti miliardari per l’acquisto di materiale sanitario? Perchè non iniziano a denunciare alla Guardia di Finanza i responsabili materiali di tanto dissesto? Perché non smantellano completamente i castelli di carta e di miliardi messi in piedi dalle precedenti gestioni anche per la costruzione di nuovi ospedali che, come quello della Piana di Gioia Tauro, sono tutt’altra cosa da ciò che dovrebbero razionalmente essere? Perché non si procede a un razionale utilizzo del personale evitando imboscamenti di ogni genere e il ricorso selvaggio ad appalti  a privati?
    Occorre smetterla e mettersi d’accordo, insomma, e non per non rompersi a vicenda le uova nel paniere, ma per ripartire da zero. E senza peli sulla lingua, senza minacce e contorcimenti verbali e vezzi da politici consumati che puzzano di falsapolitica della peggiore risma, ma, chissà perchè, non di soldi.
  Pecunia e falsità  non olent!

martedì 28 aprile 2015

I 350.000 GIOVANI CHE HANNO GIA' ABBANDONATO LA CALABRIA

di Bruno Demasi

   Mentre il governo regionale calabro, nella linea dello sfascio totale registrato dai suoi predecessori, continua a bivaccare da cinque mesi in oziose discussioni di principio e di spartizione di poltrone, sedie, sgabelli, panche , la fiumara migratoria dalla Calabria all’estero non registra soste e requie. Quasi come quella che produce l’arrivo semiclandestino nelle nostre campagne dei disperati provenienti dall’Eritrea , dalla Somalia, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, la cui fame di pane è direttamente proporzionale solo alla crescita esponenziale del nostro egoismo e delle nostre paure.
    Due esodi che si incrociano proprio in terra di Calabria: quello che vi giunge dalle coste nordafricane attraverso i campi “d’accoglienza” siciliani o direttamente dalle nostre stesse  coste, e quello dei nostri giovani che abbandonano questa terra per recarsi nei paesi europei , quasi scacciati da mancanza di lavoro, di certezze e dalla voglia di studiare dove lo studio non deve fare giornalmente i conti con i proclami parolai ed analfabeti sulla scuola e sull’università dei governi di turno e con i tagli osceni all’istruzione pubblica.
    In molti affermano ormai che la Calabria, purtroppo, guardando i numeri, non è un paese ‘per i giovani’. Se si volessero sommare quelli che sono “scappati” negli ultimi anni a quelli che già erano partiti nel recente passato, i cittadini calabresi residenti all’estero e iscritti all’anagrafe sono oltre trecentocinquantamila, senza contare i Calabresi emigrati in altre regioni dell’Italia.
    Si scappa in Germania, Argentina, Svizzera, Francia, Australia, Stati Uniti. Dei circa 350 mila calabresi emigrati ‘fuori’, la maggior parte è costituita da cittadini fra i 18 ed i 50 anni (circa il 25%), quindi generazioni intere che migrano e costruiscono una nuova vita in altri paesi. Delle 5 province calabresi è quella di Vibo Valentia ad avere la maggior incidenza di partenze (circa il 30%), poi Cosenza (circa il 20%), seguito da Reggio, Catanzaro e Crotone (intorno al 16%). 
    E mentre gli Africani giungono da noi per tentare di sfuggire alla guerra e alla fame, precipitando in una terra in cui una guerra sociale sempre latente è tenuta a freno dalle cosche, appena lenita dalle pensioni dei vecchi e la fame è appena mascherata da un po’ di cibo racimolato alla meglio, la nostra gioventù continua a fuggire da una terra che il governo nazionale oggi più che mai continua a considerare una colonia selvaggia, cui sottrarre fondi per infrastrutture e scuole, cui buttare in pasto al massimo,di tanto in tanto, una manciata di milioni di fondi europei da sprecare in sciocchezze per chiudere la bocca ai più famelici o a improbabili rigurgiti di ribellione.

domenica 26 aprile 2015

L’INCREDIBILE RICCHEZZA DI UNA TERRA ORMAI POVERISSIMA

di Fabrizio Frassinelli
   Sembra strano parlare di ricchezza per una Regione abituata da secoli a piangersi addosso ( e ne ha ben donde) , ma il rapporto del Censis di appena un anno e mezzo fa collocava la Calabria ai primissimi posti dell’offerta culturale tra le regioni italiane. Una terra da record per depositi storici, artistici, letterari e folklorici (lasciando da parte ovviamente tutte le vetrine pseudoculturali prodotte dalla vanità, ignorante per definizione, e dal tornaconto politico), ma anche per la rapina , l’incuria e il malaffare che l’hanno ridotta in assoluto regione tra le più povere d’Europa.
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   Il ‘capitale’ della Calabria comprende 13 siti archeologici e complessi monumentali individuati dal ministero dei Beni culturali, 280 fra musei, archivi e collezioni, 414 biblioteche, 186 sale teatrali. La regione ha in dote 2 bandiere arancioni del Touring Club, 10 fra i borghi più belli d'Italia, 3 borghi allo stato originale e ben 159 centri storici e insediamenti minori suscettibili di tutela e valorizzazione. Molte le vere e proprie chicche, come le trentamila colonie coralline che crescono tra i 50 e i 110 metri di profondità sui fondali rocciosi della mitica Scilla, la più grande foresta di corallo nero del mondo. 
   Ma in Calabria c’è anche il più grande mosaico della Magna Grecia mai scoperto, a Monasterace Marina, nell'antica Kaulonia, raffigurante, tra gli altri, un drago, un rosone e sei riquadri con motivi floreali. Non solo Sibari, dunque. E non solo il pur splendido Museo archeologico nazionale della Magna Grecia, finalmente restaurato, casa non solo dei Bronzi, ma anche della Testa del Filosofo, dei Dioscuri, del Kouros. Sul promontorio di Capo Colonna, a pochi chilometri da Crotone, sorge il Parco archeologico di Hera Lacinia, che si estende su 30 ettari di terreno adibito a scavi e che è tra le aree sacre più note del bacino del Mediterraneo, con un suo museo archeologico.
     L'area archeologica di Marasà, poi, accoglie il parco e il museo di Locri Epizefiri, dove sono conservati, tra l'altro, i Pinakes e la Persefone. Sempre sulla costa jonica, alle porte di Catanzaro, c'è il Parco archeologico della romana Scolacium, con annesso Antiquarium, costruita sui ruderi della greca Skilletion, oggetto di scavi e di nuove scoperte. Sono alcuni esempi, spesso sconosciuti al grande pubblico internazionale, di quello che può riservare la Calabria a un turista ben informato.
     Per parlare di Calabria con occhi smaliziati, abbiamo incontrato un uomo che calabrese non è, ma che sulla regione ha scommesso non solo tutte le sue risorse, ma persino la sua vita: Sergio Zanardi. Da oltre 10 anni residente in Calabria, con alle spalle una lunga esperienza di viaggi e reportage nel Mondo avendo svolto per moltissimi anni la professione di reporter free lance di viaggi, Zanardi ha deciso di rilanciare questa terra mettendoci l’anima e lottando contro “l’immobilismo degli enti locali, il pregiudizio degli utenti, la carenza di fondi, lo scetticismo degli stessi calabresi”. “Chi viene in vacanza in Calabria – racconta - un po’ per la scarsa informazione che viene data sui beni del territorio, un po’ perché si è sempre erroneamente creduto che l’unica risorsa turistica di questa regione sia il mare, viene soprattutto per fare vacanze balneari e, quasi mai questo tipo di turista si allontana dalla spiaggia”.
     E la Calabria per decenni si è, per così dire, adattata a questo utente mordi e fuggi, che arriva d’estate si ferma un mese e poi toglie il disturbo senza chiedere niente altro se non quello che trova: prezzi bassi e mare bello. Ora da quattro anni il network 'Terrebruzie' (www.calabriando.it), che propone solo viaggi culturali e di gruppo, è diventato un punto stabile di riferimento per chi, vinti i soliti pregiudizi su questa regione, decide di conoscere questa terra frequentandone con un accompagnatore preparato i luoghi più belli. Cosenza “città d’arte” con il suo Palazzo Arnone, importante galleria nazionale d’arte; Santa Severina, dove si trova uno dei castelli più importanti dell’intero Meridione, perfettamente restaurato, “un libro di pietra che racconta 1200 anni di Storia”; il parco archeologico di Scolacium, inserito in un contesto di rara bellezza mediterranea, che fu la residenza di Cassiodoro; Gerace, la città normanna per eccellenza, e Locri, con la visita al museo Paolo Orsi.
    E poi ancora Casignana, per i preziosi e stupendi mosaici di Villa Romana; Scilla, la cittadina di omerica memoria, affacciata sullo Stretto, con la visita di Chianalea, un angolo di Calabria che, per la sua pittoresca bellezza “ha stregato poeti e pittori di tutto il mondo”; la Casa della Cultura di Palmi dov'è custodita una delle più importanti pinacoteche, ovvero quella che fu di Leonida Repaci, ideatore del famoso Premio letterario Viareggio; Fiumefreddo Bruzio, il borgo medievale risalente al 1050 e ancora perfettamente conservato, dove gli ospiti, terminata la visita guidata vengono poi condotti a far visita alla casa di un agricoltore.

   Fare un viaggio culturale in Calabria, quindi, significa anche vedere cose inconsuete, come il Pino loricato del Fai , visitare masserie e assistere alla lavorazione del latte, conoscere le società arbresche, di derivazione albanese, antiche come la storia stessa, fare escursioni in jeep, a piedi, a cavallo, visitare gole e cale, aree protette come la Foce del Neto con il Wwf e la Forestale. E poi, certamente non possono mancare loro, i Bronzi. Non però come brillanti ma uniche star di una regione inospitale, bensì come ciliegina sulla torta di un ricco itinerario che lascia molti, se non tutti, a bocca aperta.

venerdì 24 aprile 2015

I SETTANTA ANNI DELLA LIBERAZIONE: PUNTO, DIETROFONT E A CAPO.

di Bruno Demasi
      
     Festeggiamo questo 25 aprile, che ritorna per la settantesima volta, con l’ottimismo della volontà – direbbe Gramsci – sebbene sia opprimente quest’anno più che mai il pessimismo della ragione.
   Quel pessimismo che raggiunge vette tremende in quella Calabria dove Liberazione non ha significato affatto, in questi sette lunghi decenni,  affrancamento dalle mille servitù che ancora opprimono questa terra, dalla quale bisogna partire per andarsi a curare altrove, partire per andare a studiare altrove, partire per andare a lavorare altrove. Partire insomma per rincorrere la propria dignità di cittadini fuori da un contesto regionale in cui ogni forma di cittadinanza , persino la più banale e scontata, sembra ormai sottoposta al giogo di una disoccupazione giovanile che non ha eguali , a quello della corruzione che impregna gran parte della vita amministrativa e sociale, fino a quello del pauroso degrado strutturale e ambientale che non ha avuto finora nessun cantore che lo portasse per bene alla ribalta della cronaca almeno regionale, se non nazionale. E a coloro che hanno tentato di farlo è stato spesso messo il bavaglio.
    Malgrado ciò festeggiamo, e lo facciamo con orgoglio ancora una volta: da piazza XI settembre a Cosenza, al lungomare di Crotone, da piazza Municipio a Vibo Valentia ad Amantea, e in tante altre piazze calabresi,. Una serie fitta e varia di appuntamenti, organizzati dalle Camere del Lavoro della Cgil insieme all’Anpi e da tante associazioni in tutta la regione: dai dibattiti con docenti universitari, esperti e reduci, ai concerti, fino alle letture di brani, ai momenti di festa e di profonda riflessione per celebrare questi settanta anni di libertà istituzionale, che non si sa se avranno, a loro volta, un’eredità duratura.
  Non so quali e quanti saranno gli appuntamenti nella Piana di Gioia Tauro, a parte la recita di qualche stucchevole poesiola nelle fredde piazze, spesso deturpate da orribili monumenti "moderni" costati occhi della testa, fatta recitare a memoria ai bambini delle scuole, della lettura  di qualche “pensiero”, il più delle volte redatto sottobanco dall’insegnante in cerca di bella figura. Perchè i bambini vanno educati giustamente al nostro passato di Liberazione, ma vanno accuratamente tenuti lontani dal nostro presente di oppressione sociale e civile in modo che crescano ignari e non alzino mai la testa...
   D’altronde come si fa ad avere entusiasmi quest’anno se , oltre a guardare la Calabria buttiamo un occhio alle faccende nazionali, dove si continua a sgretolare e minare boccone dopo boccone la Costituzione nata proprio dalla guerra di Liberazione, dove si cancellano i diritti – e non solo simbolici – dei lavoratori abolendo l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, dove in fondo si continuano a “varare” governi ormai assolutamente privi di legittimazione popolare?
    E come si fa ad avere entusiasmi sapendo che la corruzione ( Expo – Mose – Roma Capitale – Infrastrutture – banche - cooperative colorate, fiumi di politici corrotti, per tacere dei fiumi di denaro “sprecati” a livello regionale nel nulla) sottrae al bilancio statale centinaia di miliardi di euro, di cui neanche i colpevoli riconosciuti restituiscono alla collettività un solo spicciolo, facendo aumentare vertiginosamente un’esosa tassazione che puzza orribilmente di Medioevo e uccide?
    E come si fa ad avere entusiasmi quando centinaia, migliaia di vite umane scompaiono nella ricerca vana della libertà dal bisogno e dalla schiavitù inseguita  fino alle nostre coste ostili ?
    Nonostante tutto ciò festeggiamo ancora! Ed è giusto e sacro farlo, ma sarebbe ancora più giusto, una volta tanto, parlare, denunciare, riflettere e rimboccarsi le maniche ( però dopo essersi pulite sul serio le mani e le coscienze), per iniziare una nuova lotta di Liberazione.

martedì 21 aprile 2015

LE MILLE BALLE SULL' ESODO CHIAMATO IMMIGRAZIONE

di Domenico Rosaci
   I media, di stato e non, stanno facendo a gara a riempire i loro palinsensti e le loro colonne di analisi  fuorvianti sul drammatico esodo via mare di migliaia di disperati che giungono affamati e laceri anche da queste parti, dove molti vedono magari le Madonne, ma non Cristo sul volto degli ultimi e degli abbandonati.

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     Renzi: "Contro gli scafisti è possibile un’operazione condivisa in Europa, ma mirata. Ci sono tutte le condizioni per farlo”. Questa affermazione, come altre che ho ascoltato in questi giorni su un argomento che riguarda un numero impressionante di vite umane, è a mio modesto avviso completamente fuorviante nei confronti dell'opinione pubblica, che viene così portata a credere che la causa del problema dei migranti siano gli scafisti, ed il traffico di persone che ci sta dietro.
     Il traffico di esseri umani è una conseguenza di un problema fondamentale che riguarda i migranti, non ne è certo la causa.
     Perché il problema riguarda la necessità, per centinaia di migliaia di persone, di lasciare i propri paesi d'origine per affrontare questi viaggi della disperazione. Perché queste persone hanno questa necessità? Chi o cosa le porta ad abbandonare le proprie terre, per affrontare viaggi così terribili, dei cui pericoli essi sono certamente a conoscenza, visto che è da decenni che le migrazioni proseguono.
    Il problema è questa necessità. Come conseguenza, nascono i trafficanti di esseri umani, che guadagnano su questa necessità.
      Ma chi o cosa ha creato la necessità, il problema?
    La Libia, da dove parte la maggioranza dei barconi di migranti, è il luogo di confluenza di migliaia di profughi e disperati che provengono da Eritrea, Somalia, Nigeria, Sudan, Etiopia, ma anche da Tunisia, Egitto e dalla Siria. Queste donne e uomini, con i loro bambini, fuggono da situazioni impossibili. Per fare un solo esempio, in Eritrea la maggior parte dei cittadini vive con meno di 10 euro al mese, ed è utilizzata come manodopera praticamente gratuita per le imprese pubbliche e private, soprattutto nelle costruzioni e nelle miniere. Imprese in cui, con l'appoggio dei governi locali, gli interessi sono tutti in mano a multinazionali occidentali. Statunitensi, canadesi, e persino italiani. Il presidente Isaias Afewerki è al potere dopo 21 anni di governo, in quanto finora non ci sono mai state elezioni democratiche, e c'è un unico partito politico essendone proibita la costituzione di altri. Nel 2000 il governo eritreo ha introdotto il servizio nazionale obbligatorio in maniera indefinita prevedendo che tutti gli uomini e le donne adulte debbano essere a disposizione dei programmi di lavoro previsti dallo stato fino all'età di 40 anni, più spesso fino oltre ai 50.
    In Eritrea c'è un regime fascista.
   Invece di raccontare balle, si dica questo nei telegiornali e sui media. E si racconti degli interessi che l'Occidente ha nei confronti di questo regime. Si parli dei rapporti che l'Italia ha avuto per decenni con gli "amici" Gheddafi, Ben Alì, Mubarak, firmando trattati di alleanza ed amicizia. Forse allora anche da noi la gente capirà che i migranti che annegano orrendamente nelle nostre acque territoriali, sono vittime delle nostre politiche, delle nostre decisioni, dei nostri vergognosi e sporchi interessi finanziari.
    Nostri, perché questi interessi sono quelli dei nostri "potenti", quelli per cui noi, qui in Occidente, votiamo.    
     Nostri, perché sullo sfruttamento di questa gente disgraziata si fonda il nostro benessere materiale, la nostra insulsa esistenza di consumatori dei "giocattoli" che la pubblicità ci convince ad acquistare.
     Quei "giocattoli", dagli smartphone, tablet e PC con cui giornalmente ci balocchiamo, fino al cibo stesso che consumiamo ormai senza neppure sapere da dove proviene, sono il prodotto dello sfruttamento delle risorse e della manodopera gratuita di tanta povera gente.
      E' per questi "giocattoli" che consumiamo che quegli sventurati sono costretti a lasciare le proprie terre in cui non possono più vivere.
     Perché in quelle terre ci sono i dittatori a cui noi abbiamo venduto le armi, e le multinazionali che hanno diritto di vita e di morte sui lavoratori.
     E' per questo che scappano, ed è per questo che esiste un traffico di esseri umani che molto spesso, come in Eritrea, è organizzato dagli stessi militari, che chiedono mille dollari (cioè spesso l'equivalente di tutti i beni di un fuggitivo) per nasconderti in una macchina e permetterti di fuggire. Di fuggire da coloro che li stanno aiutando a fuggire. Per venire da noi, che abbiamo aiutato i loro aguzzini a torturarli. Per morire da noi, che li disprezziamo persino dopo che sono morti nelle nostre acque.
     Questa è la nostra follia, di cui siamo al cento per cento responsabili.
     Queste sono le parole che nessuno dice, perché ci disturbano e non ci permettono di dormire tranquilli.
Perché se ci diciamo queste cose, con quale coraggio domani potremo andare a comprare il nuovo modello di smartphone, di cui abbiamo assolutamente bisogno anche se non ci serve? Con quale coraggio domani potremo votare per il politico "per bene", quello che non dice le parolacce ma ci promette invece che ci libererà da questi sudici migranti oppure impedirà che partano dalle loro terre, fermando gli scafisti?
     Questa è la nostra follia, e se ci si vuole rendere conto di cosa essa comporti, si vada oggi stesso, laddove ci sia possibile, su qualche spiaggia in riva al mare, e si guardi verso l'orizzonte lontano, dove magari si potrà vedere, o anche soltanto immaginare, il fumo di qualche barcone che sta per capovolgersi con il suo greve carico umano.
     Quelli sono gli oscuri segni della nostra follia.

domenica 19 aprile 2015

WALTER CORDOPATRI: DA GIOIA TAURO ALL’ITIS DI OPPIDO MAMERTINA AL CENTRO DI CINEMATOGRAFIA

di Giuseppe Ierace

   Un giorno impreparato all’interrogazione, per poter sfuggire alle “grinfie” del professore, di genio si inventò una storia personale e intima alla quale il docente credette, cosi lui riuscì a farla franca. Ma le bugie come si dice hanno le gambe corte; quindi subito dopo si scopri che è stata solo una burla ideata al momento giusto. All’approssimarsi degli esami finali di Stato la domanda per lui fu spontanea rivolta allo sbalordito professore che fu testimone di quell’eccelsa pantomima costruita in qualche minuto…Cosa farò dopo il Diploma? Quest’ ultimo non avendo alcun dubbio rispose a tono. Tu devi fare l’attore. Il protagonista è Walter Cordopatri nato a Gioia Tauro (Rc) il 24 settembre 1987 da padre commerciante e mamma casalinga che legato dalla passione del calcio fu spinto in Friuli Venezia Giulia, diplomatosi all’ Itis di Oppido Mamertina (Rc) ebbe quella sterzata verso la recitazione.
    Dopo una singolare selezione che lo portò tra i primi 8 iniziò per ben 3 lunghi anni gli studi presso la scuola più prestigiosa d’ Italia “Il Centro Sperimentale di Cinematografia” di Roma. Qui ebbe l’occasione di entrare in stretto contatto con i mostri sacri del teatro Giancarlo Giannini, Mirella Bordoni, Giovanni Veronesi, Vito Mancusi, Mario Maldesi , Furio Andreotti, Alessio Di Clemente, Eljana Popova e nel 2012 si assicurò il diploma di attore professionista. Il suo primo lavoro fu nel 2009 con un video musicale di Elisa Toffoli “Broken”. Nel 2011 si è reso protagonista di “il Caffè”, di Paco Treglia, un cortometraggio che affronta le difficoltà relazionali di coppia; grazie al quale vinse il premio di miglior attore al festival di Ferrara. Nel 2012 è stato il co-protagonista di “Melina, con rabbia e con sapere”; di Demetrio Casile. In quest’anno lui stesso ha scritto un cortometraggio girato nella sua terra natia precisamente a Rizziconi dove è cresciuto, “30 e lode“diretto da Salvatore Romano. Che lo portò sul podio vincendo il premio come miglior Attore “Al Mendicino Corti” e all’ “Azzurra Film Festival”. Nel 2013 è a teatro con “Canale Mussolini” diretto da Clemente Pernarella in cui interpreta il protagonista del romanzo, Pericle Peruzzi.
   Che dire gli impegni sono sempre stati tanti tra teatro cortometraggi e inoltre il prestarsi come modello e fotomodello per vari marchi italiani. Ma da buon calabrese con il bagaglio del sapersi arrangiare, è stato sinonimo dell’ultima produzione “La notte non fa più paura”. Il Film parla di un padre calabrese della piana di Gioia Tauro, giovane operaio trasferitosi in Emilia per fare il saldatore in una fabbrica dove incontra una cultura diversa dalla sua e quando tutto sembra per andare nel verso giusto ci si mette in mezzo il terremoto. fotomodello per vari marchi italiani. Ma da buon calabrese con il bagaglio del sapersi arrangiare, è stato sinonimo dell’ultima produzione “La notte non fa più paura”. Il Film parla di un padre calabrese della piana di Gioia Tauro, giovane operaio trasferitosi in Emilia per fare il saldatore in una fabbrica dove incontra una cultura diversa dalla sua e quando tutto sembra per andare nel verso giusto ci si mette in mezzo il terremoto.
   Walter è protagonista con Stefano Muroni, il David di Donatello Giorgio Colangeli e il resto del gruppo Ivan Alovisio, Piero Cardano, Rosario Petix, Valentina Imperatori, Valeria Romanelli, Silvana Spina e la piccola Carlotta Benini. La regia è di Marco Cassini come opera prima, prodotto dall’”Associazione da Ferrara alla luna” di cui fanno parte la produttrice esecutiva Ilaria Battistella e l’ ufficio stampa Stefano Govoni , non si può esimere da un plauso verso il nobile gesto di Maria Rita Storti, Vittorio Gambale, Provincia di Ferrara, i Familiari delle Vittime e tutti quelli che hanno contribuito con il progetto CrowdFunding ideato per raccogliere più fondi possibili alla riuscita della pellicola dato il budget molto limitato. 
   Il film sarà presentato il 29/04/2015 all’ Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles facendo la rappresentanza della cultura italiana in Europa dove il nostro Bronzo di Riace crede ancora fermamente di perseguire con spirito di abnegazione quello che di buono ci resta in questa società basandosi sui principi cardini del vivere, autodefinendosi di essere un attore di una categoria particolare, non avvalendosi di meriti o ponendosi con l’ aria da divo ma percorrendo quel sentiero dove l’ umiltà ha lasciato le orme, facendo tutto con semplicità a 360° gradi sempre a testa alta, Scrivendo, interpretando e alla ricerca sempre di nuove risorse”.

venerdì 17 aprile 2015

La penna del Greco: I FUNGHI LATITANTI (Racconto)

di Nino Greco
   Un altro bel  racconto rigorosamente tratto da un episodio della  realtà romanzesca  ricorrente nei  piccoli paesi in tempi non molto lontani, immortalato dalla penna di Nino Greco in concomitanza con la presentazione del suo romanzo , LA TANA DEL FAJETTO, che avverrà  sabato, 18 aprile, alle ore 10,30 nella sala episcopale a Oppido Mamertina e alle ore 17,30 nel Book Store Mondadori a Gioia Tauro (Parco commerciale Annunziata).
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   Quelle piogge, dopo le calde giornate settembrine, spalancavano le porte alle fantasticherie e alle ricerche:il tempo dei funghi giungeva così, all’improvviso. Chi ne aveva da dire, narrava delle prime raccolte: jancheji, caddarari, gajineja e cucuriti. Spesso era una gara a chi la scaricava più grossa, una spasmodica voglia comune di catapultarsi in coste e anfratti e dirupi di quelle montagne. Tantoché il paese sembrava vivesse sulle quintalate di funghi, tesori degli eldoradi aspromontani.
   L’ incanto stava anche nell’udire i nomi che indicavano lacchi, valloni e piani :l’acqua d’a fami, l’acqua d’abìtu, l’acqua d’u fagu, l’acqua d’a prena. Poi ancora Mastrugianni, ‘u vaccarizziu, ‘a mamertina, ‘a cerasara, stranguluscia, petra cappa, petra cuccuma. Sentieri remoti, ma nelle descrizioni dei fungiari parevano semplici contrade, ‘llocate di leggendarie raccolte, percorsi impegnativi che dicevano dell’audacia e della conoscenza dei luoghi dei tanti che osavano come cercatori.
  Cosicché s’incignava settembre e si andava avanti fino alle prime nevi, fino a quando la montagna non diveniva ostile. Tutti, o quasi, alla ricerca del fungo, spesso solo per il piacere di poter dire ho trovato “ una chilata”, oppure “trovai dduj mmorza”, e non restare indietro al cospetto dei tanti che a loro volta dicevano di pesate da meraviglia. Qualcuno buscava la giornata. Altri ammaccavano solo il tempo.
    Tra i tanti sfaccendati risultavano anche: Don Ninì, Rroccuzzu e Don Cecè.
    I tre amici tutti i santi giorni, dopo pranzo si ritrovavano in piazzetta e, utilizzando le proprie auto - a mano girando- s’inerpicavano fin lassù. Preferivano di pomeriggio, con calma. Le levatacce per il posto le lasciavano agli altri.Secondo le dottrine dei fungiari non era conveniente infatti andar a cercare funghi di pomeriggio, conveniva andare di mattina presto per accaparrarsi il posto migliore, ma loro – Don Ninì e gli altri – di questa teoria se ne fottevano. Andavano in montagna a panza china, spesso solo per fare vesperi con pane, pecorino e un buon litro “d’u patri d’a fezza”. Parcheggiavano al solito posto e cominciavano a setacciare luoghi meno impervi e agevolmente praticabili, poiché ormai, per tutti e tre, il primo pelo era già andato.
                                                                                        ***
    Fu un giorno, un po’ più tardi del solito, che Don Ninì arrivo in piazzetta e non vedendo né gli amici né le auto, bussò alla porta di Totò, uno dei tanti fratelli di Cecè.
-Totò, hai visto e dui sciancati !- chiese, inquieto, Don Ninì.
- Un quarto d’ora fa sono partiti per la montagna, ma tu non sei andato oggi? chiese Totò.
- Mi dovevano aspettare!- imprecò.
- Ho fatto tardi, ma loro potevano anche passare da casa per dirmelo! – stizzito.
- Chi prescia  'i mammina ‘ndavivanu’? - disse incazzato, immaginando che avrebbe dovuto trascorrere un pomeriggio in solitudine, senza merenda e senza la cugghjunella che cadenzava la loro frequentazione.
     Don Ninì, da qualche anno in pensione, era un carrettaru di prim’ordine; per l’attività di famiglia aveva dato incarico ai figli e lui si destreggiava tra circolo operaio, funghi e piazzetta.
    Rroccuzzu, pensionato, aveva per anni assistito, tra i meandri dell’analfabetismo, braccianti e operai con domande per la disoccupazione e avvii di pratiche per il pensionamento. Col suo lavoro, discreto e garbato, aveva, di fatto, aiutato quella comunità composta per lo più da povera gente. Ora si godeva quei pomeriggi con gli altri due compari di ventura.
    Don Cecè, il più grande di otto fratelli, galantuomo di razza e persona onestissima, era stato meccanico e aveva avviato a Oppido la prima attività di noleggio auto con conducente. Amava però molto contare fatti e nelle sue narrazioni ritornava prepotente un periodo della sua vita in cui diceva, di essere stato carabiniere. Non si era mai appreso in che modo, ma si suppone avesse assolto il servizio militare come carabiniere volontario.
   Quel periodo gli aveva segnato la vita e col suo fare offriva aneddoti e fatti realmente capitati - lui diceva , ma i dubbi la facevano da padrone - in cui appariva sempre sulla ribalta della scena come unico e indomabile protagonista. Un genio del racconto e quando si esaltava in modo particolare, difronte a spettatori attenti, non lesinava fantasie per caricare, oltre ogni gloria, le sue gesta e, come si dice, se si era al chiuso bisognava aprire le finestre per fare uscire le balle.

    Don Ninì non si rassegnò, mise in moto la sua macchina e si avviò. Sapeva come e dove raggiungerli, loro erano stanziali. Dopo la passeggiata tra i faggi era sufficiente avere a disposizione un parapetto di cemento per poggiare sopra le vettovaglie per lo spuntino. Voleva raggiungerli, anche quel giorno, per pasteggiare con loro:che se ne importava dei funghi, a lui bastava il resto. Non aveva digerito, però, di essere stato lasciato a Oppido, sta cosa lo ‘mpuzzunava un po’ e mentre si avvicinava ai “primi chiani”, pensò che quel giorno doveva essere diverso dagli altri e che doveva far pagare pegno per la mancanza di riguardo che avevano avuto nel non aspettarlo.
    Arrivato poco prima dello spiazzo, dove abitualmente lasciavano l’auto, accostò la sua in maniera che non si notasse tanto, scese e s’incamminò nel fitto sottobosco cercando di non essere veduto. Non si sbagliò. Li avvistò intenti, a poca distanza l’uno dall’altro, a rovistare senza frenesia tra fogliame, arbusti e felci.
- Alto là chi va là !- Urlo Don Ninì, nascosto dietro al fusto di un faggio, storpiando la voce.
    Loro si fermarono di botto, incrociarono gli sguardi meravigliati e buttarono l’occhio intorno, cercando di capire da dove potesse arrivare quell’intimazione.
-Non vi muovete siete circondati!- riprese Don Ninì- Buttate panieri e coltelli!- urlò ancora.
    Sempre più sorpresi,i due eseguirono, gettarono per terra i panieri e i coltelli, e mentre lo facevano, scrutarono nella direzione da dove proveniva la voce.
- Non vi muovete e non vi girate! Siete sotto tiro! Un vostro gesto può costarvi caro!- perentorio nei toni e col piglio  da comandante.
-Tenete le mani in alto!- continuò – Chi siete! Come vi chiamate! Da dove venite!
- Gioffrida Vincenzo, Oppido Mamertina, meccanico, autonoleggiatore in pensione ed ex carabiniere, sono molto amico del generale D’Ippolito - pronunciò con apprensione, cercando di essere convincente e esibendo una credenziale, secondo lui forte, e sempre con le mani in alto.
- Che sta dicendo!? Il generale è morto venti anni fa! A chi vuole imbrogliare!?- Don Ninì, minaccioso, non sapendo nemmeno chi fosse il generale D’Ippolito.
-Non sapevo fosse morto, scusatemi; con lui ci siamo conosciuti quando feci il giuramento da carabiniere- esclamò Don Cecè , timoroso.
- E lei chi è ?
- Camilleri Rocco, pensionato e responsabile della camera del lavoro di Oppido - rispose Rroccuzzu, non celando una forte emozione mista a paura, volendo, anch’egli, essere persuasivo.
Erano ormai fermi da alcuni minuti con le mani in alto tra i faggi e sotto il tiro di una voce, mentre intorno regnava il silenzio.
- E’ in corso un’operazione, molto pericolosa e non vogliamo testimoni, non vi dovete muovere né abbassare le mani, siete sotto tiro, anche se non ci vedete! Quando finirà tutto, potrete riprendere il vostro da fare!
- Agli ordini !- rispose Don Cecè, rispolverando l’intonazione da carabiniere.
- Fra mezz’ora tutto sarà finito, poi potrete lasciare questo posto! Non fatelo prima o rischiate di beccarvi qualche pallottola!-.
    Mentre pronunciava queste parole, si udì il motore di un elicottero. Fu casuale, ma a Don Cecè e a Rroccuzzu apparve come la controprova di ciò che stava avvenendo intorno e sopra di loro.
    Don Ninì, col volto soddisfatto e un sorriso da canaglia, come solo lui sapeva essere, scivolò in silenzio tra i faggi. Giunse dove era parcheggiata la sua auto, l’aprì mise in moto e partì per Oppido.
    I due rimasero lì, fermi e muti. Tutt’intorno taceva né rumori né intimazioni.
   L’elicottero si era fatto sentire ancora, ma poi era sparito, il manto del crepuscolo si stava già abbassando e la nigghjiata stava per cacciare gli ultimi residui di luce.
   Ai due compari sovvenne quanto era accaduto un anno prima a due loro compaesani, che, sorpresi dalla nebbia, calata repentinamente, persero i riferimenti per recuperare la via del ritorno e si trovarono a vagare per tutta la notte. Rischiarono di precipitare dal vallone a strapiombo che si affaccia su Platì, ma la saggezza di aggrapparsi alla coda di una vacca e poi di seguirla fu provvidenziale, sapevano bene che l’animale avrebbe evitato dirupi e timpe. Furono trovati all’indomani dai carabinieri in forte stato di confusionale.
    Don Cecè abbassò lentamente un braccio, poi l’altro, nulla si udì. Si guardò intorno. Rroccuzzu lo seguì. Nonostante la voglia di fuggire dalla foschia, i loro movimenti furono lenti come a scandagliare se fosse possibile muoversi. Furono attenti e apprensivi; la voce li aveva abbandonati da almeno mezz’ ora e Don Ninì, ormai, era giunto a Oppido.
    Ripresero i panieri e i coltelli, affrettarono i passi, non aprirono nemmeno la truscia col formaggio e il pane, entrarono in macchina e si avviarono.
    Solo Cecè aprì bocca durante il viaggio. Si lanciò a narrare, come suo uso, sulle tecniche e le tattiche riguardanti le operazioni come quella vista - immaginata- poco prima. Raccontò, con i modi e i toni a lui più adatti, di alcune azioni dove -a suo dire- si distinse per valore e coraggio.
    Furono a Oppido. La sera ormai aveva steso tutte le sue ombre più scure. Giunti davanti casa di Cecè, Rroccuzzu accosto, lo fece scendere, e si avvio verso la sua.
  Don Ninì, però, era in agguato, nascosto dietro l’angolo del Bar Centrale. Dopo aver visto scendere Don Cecè dalla macchina e infilarsi dentro la sartoria, sveltamente si avviò con l’intento di raggiungerlo.
- Cecè! Oggi avete fatto le lepri! Mi avete lasciato qua! Che modi sono questi! Che begli amici ho! esordì col tono incazzato Don Ninì, irrompendo dentro la sartoria.
- Questa me la pagherete!
- Ninì ! assami stari! No sai chi ndi capitau ! aspetta ca ora …. ti cuntu!- Disse Don Cecè, con la mimica di chi aveva da scaricare notizie importanti.
- Meno male che non sei venuto! E che spaghetto ci siamo presi !- disse.
- Senti: nu battaglioni di carchi 500 carabinieri ! i menzi eranu a cavallo ! Camionetti fino all’acqua d’abitu! Cani lupi! Tuttu u battaglioni di cacciatori!– si fermò scuotendo la testa per dire meraviglia, riprese.
- Siamo stati circondati! Ci hanno perquisito e mentre uno stava per fare lo sbruffone, l’ho bloccato presentandomi come carabiniere e collega, lui si è messo sull’attenti perché conosceva anche lui il Generale D’Ippolito! Figurati che ancora loro sono là. Mi ha confidato il capitano che stavano conducendo un’operazione complicata. Cinque elicotteri atterravano e si alzavano d’i Chiani ‘i Juncu portandu rinforzi! Tutta la montagna ora è bloccata, cercano trenta latitanti, solo noi siamo riusciti a passare il posto di blocco, grazie al fatto che sono un ex carabiniere, ed eccomi qua! - fece uno sbuffo e si fermò…- vidi ca fu megghju ca non venisti!
    Don Cecè si mostrò per come gli piaceva essere: se solo Don Ninì, nascosto dietro al faggio, avesse sparato un colpo con una scacciacani, la battaglia di Montecassino sarebbe stata poca cosa difronte alla sua smisurata e innocente fantasia.

giovedì 16 aprile 2015

I CANCELLI SALDATI DI FOCA’ (Contro l'arrivo dei neri)

di Bruno Demasi
   Focà è una frazione rurale di Caulonia, dove non appaiono le Madonne, ma si saldano i cancelli delle scuole per impedire il ricovero dei poveri Cristi. Eppure Focà, come la bella Caulonia, come tutta la Locride resta nel cuore di chi la conosce per la cordiale generosità della sua gente, che nella cadenza melodiosa del suo dialetto echeggia antiche e profonde commistioni tra il sangue bruzio e quello greco ed arabo.
    E nelle stesse ore in cui il Parlamento italico, quale unica puzzolente soluzione al problema dei migranti in arrivo sulle nostre coste, si apprestava ad istituire la “Giornata dei caduti di immigrazione”, vale a dire a chiudere nel congelatore di una stucchevole e costosa manifestazione il dramma di migliaia di persone abbandonate a se stesse e in fuga dalla loro terra devastata dall’uso di armi terribili in gran parte prodotte in Italia, i genitori degli studenti della scuola elementare della frazione Focà di Caulonia per impedire che la scuola stessa venisse utilizzata per accogliere i migranti appena sbarcati hanno saldato uno dei cancelli d’ingresso. Per effetto della protesta 180 migranti sono stati trasferiti da Caulonia a Roccella Jonica dove il Comune ha messo a disposizione una struttura. E ci sarà chi si sporcherà la bocca indignato contro il comportamento di questi genitori, ma non verso l’insipienza ladra di chi scaraventa sulle scuole e solo sulle scuole le emergenze di turno.
    Focà come Corigliano, come Rosarno, come i mille ghetti voluti dai nostri politici per nascondere sotto il tappeto la sporcizia, la fame, la disperazione di questa gente che , se riesce ad arrivare viva sulle nostre spiagge, va incontro subito a una scelta, come avveniva nell’anticamera di Auschwitz: i vecchi, i bambini e i malati da una parte, coloro che sono in grado di lavorare in nero per quattro soldi dall’altra! E non bastano i don Roberto Meduri, qualche altro sacerdote di buopna e silenziosa volontà come lui e qualche volontario senza etichette per sfamare questa gente.
    I milioni di euro sbandierati per lenire il problema continuano a finire in grandissima parte nelle tasche dei trafficanti nostrani di accoglienza e di carità, che non hanno nulla da invidiare agli scafisti trafficanti di morte che vengono dall’Africa, la mecca di sempre per i fabbricanti di armi e munizioni che ingrassa la Padania per la quale Salvini ha la faccia tosta di venire a chiederci i voti.
    Non condanno i genitori dei bambini delle tante Focà disseminate in Calabria , dove si fa baratto
degli edifici scolastici per ricoverare provvisoriamente questa  gente, per poi spedirla alla chetichella e a pedate nell’inferno e dopo aver rubato ai piccoli giornate intere  di scuola e di quella   improbabile istruzione che tenta di sopravvivere alla “Buona scuola” renziana. Condanno tutti coloro i quali a livello locale, comunale, provinciale, regionale, pur sapendo di tenere il sacco ai ladri, continuano a tacere e non si battono per allestire senza sprechi ricoveri dignitosi e sicuri per gli immigrati, ricoveri senza cancelli saldati, magari nei mille edifici scolastici e pubblici ormai deserti!
    Sentiremo ancora parlare di questa gente che arriva nella Calabria della povertà e della generosità nascoste e stamperemo nella nostra mente per l’ennesima volta i visi afflitti e gli occhi sbarrati impossessati dal terrore di tanti nuovi poveri, quando ascolteremo dalle nostre poltrone le notizie falsamente pietistiche dei telegiornali nella ricorrenza della “Giornata del migrante caduto”.
      E ci indigneremo per una decina di secondi anche noi.