sabato 13 febbraio 2016

L'ANTICA ARTE CALABRA DEL CORTEGGIAMENTO

di Maria Lombardo

  Un tempo il corteggiamento era visto come l’inizio di un percorso importante nella vita di una giovane contadina in età da marito, un mezzo che le consentiva di avere visibilità sociale e di sentirsi importante. Ben altri tempi , quando ci si accontentava di poco. Era davvero dura la vita che dovevano fare i poveri corteggiatori: la ragazza non usciva mai di casa e ,se lo faceva, era sempre accompagnata. “‘A fhimmana non viduta, centu ducati e’ cchiù è valutata”, ragion per cui le schette, ossia le nubili, si potevano guardare solo in chiesa.
    Tuttavia era anche in uso che il giovanotto cercasse la donna nel suo paese. Quale buona occasione la domenica a messa o nelle feste di paese. Le donne da marito in quei giorni, smessi gli abiti quotidiani, tiravano fuori dal baule l’abito migliore magari cucito dalla madre. Il giovanotto frequentava la chiesa, ma solo per incrociare lo sguardo della ragazza scelta. A volte l’incontro amoroso, un po’più ravvicinato, avveniva nei campi , che spesso erano confinanti e coltivati dai rispettivi genitori, o nei boschi, dove la ragazza si avventurava a far legna, o alla fontanella rurale dove si recava a prendere l’acqua per bere, oppure alla fiumara dove andava per lavare i panni. 

    Succedeva poi che tra gli innamorati, magari mentre lavoravano i propri poderi, si sollevassero dei canti, canti inventati lì per lì, ma sinceri e carichi di sentimento. Per le valli e nei campi, al tempo della semina o del raccolto, si innalzavano nell’aria dolci melodie che accendevano i cuori palpitanti di giovani contadini e contadinelle di stirpe calabrese. Le più ardite nel canto erano le donne che davano sfogo alla propria ugola anche da sole o istigavano le compagne a farlo in coro per non farsi scoprire. Era infatti un andirivieni di melodie a botta e risposta imitate, in questo, da timidi giovani che con mottetti e serenate intessevano con le loro belle una storia semplice, intensa e commovente.
    Cantavano all’aria nova, diceva mia nonna, brani antichi a volte mutati in qualche forma. Qui ne riporto alcuni spezzoni nei versi nel nostro dialetto locale e leggermente adattati in modo da risultare comprensibili e di senso compiuto affidandoli rispettivamente ad un Lui e ad una lei ideali.
    Lei andava cercando il ragazzo e sperando di incontrarlo si affidava alla fortuna:” Io già jettai ’na vuci ‘ntà vallata mu viju si mi rispundi la furtuna”. Lui la incontrava emozionato: “Oi giuvinettha cu sti ricci attornu, no sbattire st’occhi ca mi fhai morire”.
    Capitava però che fosse lui ad errare per le campagne in cerca di Lei anche solo per un saluto:
    “Bella chi tieni ’nu garofalu a la rizzigghja ,chi ù dduri mi vena de trhi migghja". Lei ardeva dal desiderio di stare viciao all’amato e il non vederlo era fonte di dolore e sofferenza.
    Era questa la strada  bella, ma contorta che conduceva al matrimonio  le giovani contadine.