mercoledì 4 maggio 2016

FERDINANDO MITTIGA BRIGANTE D’ASPROMONTE


di Maria Lombardo 

   Ormai non c’è più limite all’indecenza di dipingere tutti i briganti come salvatori della Patria! E’ vero molti di loro lo furono, hanno lottato fino alla fine per difendere il Re Borbone e riportarlo alla “restaurazione”. Ma dipingere alcuni come onesti e buoni personaggi, ammantarli ex post di vittimismo per le scelte fatte, è storicamente sbagliato!
    Tanto per la cronaca - e probabilmente le menti più “fervide” del meridionalismo storceranno il naso - in Calabria il brigantaggio faticò ad attecchire. Tanto meno si sviluppò nel Reggino dove in fondo si è enumerato un solo brigante: Ferdinando Mittiga.
    La più recente letteratura meridionalista lo ha descritto come una sorta di Robin Hood, ma ha omesso vistosamente di dire che Don Mittiga si era schierato contro i Borbone sia pure a favore di poveri ed oppressi, ma, cambiato il Re, anche lui voltò pagina e creò una banda di 250 uomini contro i Savoia.
   Andiamo per gradi e cerchiamo di capire chi era veramente questo strano personaggio.
   Nella storia delle Due Sicilie Ferdinando appare per la prima volta nel 1848 sulla costa jonica di Bovalino-Ardore. Scrive infatti il Regio giudice Gualtieri al Procuratore Generale del Re in data 10 settembre 1848: «Gli insorti, prima di partire da Ardore obbligarono il custode ad aprire le prigioni e liberarono al grido « Viva l’Italia; viva Pio IX i carcerati Ferdinando Mittiga e Domenico Carbone di Platì, condannati per ferite con coltello».
    Il Mittiga operava sulle alture aspromontane tra Platì e Gerace una volta in libertà, divenne persino la guida del Borjès. Si sa infatti che il generale Clary, capo del comitato borbonico di Marsiglia, fece partire dalla Calabria l’impresa insurrezionale per una restaurazione legittimistica. La fierezza dei calabresi giocò un ruolo determinante se si suggerì al generale spagnolo di rinnovare l’impresa del cardinale Ruffo di sessant’anni prima, sfruttando la presenza nel reggino di Ferdinando Mittiga.
    Era soprannominato «Caci»: in Calabria dalla notte dei tempi le persone vengono distinte con i soprannomi . Il soprannome «Caci» è di chiara origine greca (katia = cattiva fama, cattiveria) e non è il solo grecismo presente nell’abitato di Platì. Innanzi tutto è il nome stesso del paese che a nostro avviso deriva dal greco «Platùs» (luogo ampio largo ed in greco ionico luogo dal sapore maleodorante, salato). In effetti la valle’ di Plati, si legge nelle Memorie di Don Vincenzo Tedesco del 1856, «la quale rende ora malagevole la comunicazione con dietro marina, si formò posteriormente per effetto del terremoto che il 1638, mentre prima la montagna scendeva con piano inclinato in modo che in tre ore si andava da Bovalino a S. Cristina». Tra l’attuale abitato di Natile quello di Cirella esisteva prima del terremoto un ampio lago (località Lauro) di acqua salata, con intorno zone paludose 

   . Il Mittiga definito «delinquente per private inimicizie» si atteggiava come il bandito Crocco che operava nel territorio vicino di Melfi, a difensore del legittimo sovrano, ed era favorito ed eccitato dai reazionari del suo paese e di quelli vicini. La sua banda crebbe a dismisura ed era composta da ex detenuti, ex coloni mandati lì dalle prigioni di Reggio ormai sature, per bonificare l’area.
    Si rifugiavano in conventi del luogo, ma il 30 settembre il Mittiga cadde in un’imboscata tradito da uno dei suoi alla guardia Nazionale. Nulla da stupirsi: tra loro accadevano spesso questi omicidi o imboscate per incassare i denari italiani. Sono andata a cercare tra i registri degli atti di morte di Natile ed al numero 12 del foglio N. 6 l’ufficiale d’anagrafe del tempo Francesco Strangio, annotava che i testimoni Antonio e Francesco Callipari dichiaravano che «il Trenta del mese di settembre alle ore undici era morto Ferdinando Mittiga, di anni trentatrè da Platì, di Francesco e di Dorotea Brui».Ad avallare il mio racconto ci sono consultabili per tutti niente di meno che le Memorie di Borjès, che narra dapprima della diffidenza con cui era stato accolto dal brigante platiese, e, poi, di come era stato abbandonato in mezzo all’Aspromonte, vicino a Giffone, dai “valorosi” combattenti di Mittiga. Il Generale ancora al momento della cattura dice ai piemontesi nella persona del Tenente Staderini: «Iba a decir al Rey Francisco II que no hai mas que malvados y miserables para defenderlo» (Stavo andando dal re Francesco II a dirgli che non ci sono che malvagi e miserabili a difenderlo). 

   Le guardie portarono la testa mozza del Mittiga conficcata ad un palo in giro per il paese di Platì e poco dopo il Generale De Gori diede l’immediato ordine di sepoltura, arrabbiandosi non poco per la sceneggiata. Qualche anno più tardi sulle Rocce dell’Agonia un massaro di Platì trovò un forziere e a sera si preoccupò di consegnarlo all’arciprete del tempo, Don Oliva. Era ripieno di marenghi d’oro di cui, nella concitazione della fuga, il generale spagnolo Borjés fu costretto a disfarsi per alleggerirsi e scampare agli ufficiali piemontesi.
    Questo tesoro consentì l’acquisto all’asta di sterminate proprietà e diede un’impronta latifondista all’Aspromonte Orientale. C’è chi ricorda l’episodio e con sarcasmo – ridacchia esclamando: «Sordi ‘i stola, comu veni vola»! 
   I tempi dell’immaginario romantico e brigantesco appaiono ormai scalzati dai recenti eventi: ai vecchi briganti sono subentrati i nuovi briganti della società attuale, spesso travestiti da persone “perbene”.