sabato 22 ottobre 2016

La penna del Greco: "Colonìe" : IL SAPORE DELL'ACQUA E DELLA TERRA

di Nino Greco
   "Colonìe" è il grande affresco sulla civiltà contadina dell'Aspromonte che Nino Greco sta dipingendo da qualche tempo e di cui vuole onorare ancora una volta questo blog con alcune pennellate inedite  pregne di grande commozione  legate a brandelli di vita vissuti un tempo ormai lontano non solo da lui, ma da tutti noi che di questa civiltà siamo indissolubilmente figli e che solo chi del mondo contadino è realmente erede può comprendere in pieno.
    Ecco dunque un'altra anticipazione di un lavoro narrativo di grandissimo respiro che sta nascendo pagina dopo pagina, goccia dopo goccia quasi a irrigare e fertilizzare quei ricordi - paurosi e dolcissimi allo stesso tempo - che fanno da imprinting anche al linguaggio narrativo e descrittivo di Greco.
   Un linguaggio orgoglioso, senza nulla di artefatto,  molto dinamico nella ricerca di un lessico colorato e pastoso e orgoglioso delle sue nobilissime origini, denso di termini dialettali e  innestato su una trama sintattica rigorosa e superba.
   Un linguaggio evocativo a tratti solenne e sacrale come alcune pagine eterne della letteratura russa; più spesso semplicissimo e minimale, come gli eventi raccontati e i paesaggi descritti da Cesare Pavese nei suoi romanzi  o nei "Racconti di Bovalino" da quel  Mario La Cava di cui Greco è senz'altro il migliore erede .
    Personalmente - e Lui lo sa - attendo con grande emozione ogni volta le nuove pagine, che Nino Greco mi fa avere e che faccio sempre decantare qualche settimana prima di metabolizzarle anche io e poi pubblicarle qui già divenute vino, ma ancora odorose del mosto della sua narrazione sofferta e grondante lo stesso sudore che condiva le sue nottate col padre tra gli aranceti estivi sempre assetati  come gli ortaggi che essi  proteggevano con la loro ombra sacrale. ( Bruno Demasi)

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   Il Paravento, quel pezzo di terra di lato alla fiumara, un misto tra il petroso e terra renosa, era divenuto dopo la scugna una piantagione di aranci tarocchi; reste dritte di giovani arbusti, un bel colpo d’occhio che diceva molto della destrezza di chi aveva tirato le lenze.
  Carìcola gli aveva dato tre palmi con ruspa e trattori, e alla fine quello spiano dimenticato era divenuto un aranceto.
  Due tumanate di nuovo giardino tra fiumara, canneti, cipressi e pioppi; quei pioppi che sotto le venticate si torcevano resistenti e fieri, e quando il sole leonino riempiva di calura le sponde di quella fiumara divenivano rifugi di ombra e di frescura.
   Mio padre diceva: “terra bona”, e ogni volta che ci passavamo davanti si fermava ‘ncantato a guardare, poi entrava, ne prendeva una junta la strofinava tra il pollice e l’indice dell’altra mano, e mentre continuava a tastare quei residui sul palmo, alzava lo sguardo felice e lo lasciava andare fino a limite della fiumara, dove si scorgeva la prisa.
   Non ero certo di cosa gli girasse in testa, ma intuivo che quel pezzo di terra vergine aprisse l’appetito a lui come a tanti altri che riconoscono la bontà della terra al tatto e all’odore.
   Noi avevamo già qualche tumanata dai Generusi, terra da semina e pijusa; uno scampolo di fondo oltre lo stradone che scende dalla Ferrandina e che costeggia la fiumara, tra le terre Carìcola e il Banco; quella fiumara che poi si unisce a Boscaino e si butta a ingrossare Marro.
   Ogni anno a fine inverno, mio padre andava a palazzo, a Varapodi, per ripetere la richiesta.
   Il padre dei Generusi, dopo qualche giorno mandava qualcuno dei figli, quasi sempre Don Totò, per concordare sulla parte di terra per il nuovo anno, per stabilire dove seminare la suja greca, e ancora dove piantare i pomodori e i fagioli.
- Vicenzo! Mi raccomando non voglio vedere fasolate arrampicate alle rangare!
   Mio padre lo rassicurava, e così faceva seminare le zotte lontane dalle piante, e quando già qualche fasolata alta tentava di abbarbicarsi a qualche ramo, lui o mia madre riconducevano le cime alla canna dove era impalata.
   Da quando si piantava a quando si spalava l’ultimo pedi di posterino c’era l’impegno di bivarare l’agrumeto, anche la parte che rimaneva fuori dagli orti.
   Nella sostanza un baratto: lavoro di braccia in cambio dell’uso di pezzi di terra.
   Era parola ditta e impegno da tenere.
   Tra i coloni dei Generusi, oltre a mio padre, c’erano compare Michele e Vavarella, con loro si stabilivano le volte e a chi toccava bivarare per primo; si tirava a sorte e si procedeva seguendo un ordine che tutti tenevano a onorare. 

   E così quell’anno mio padre si convinse e chiese a Carìcola un pezzo di Paravento; lui arrivò un giorno, con la sua giardinetta e gli disse che concedeva la terra a condizione che fossero piantati pomodori e ortaggi di taglio basso. Detestava le fasolate, diceva che le alte erano nocive ai giovani aranci.
   In cambio chiedeva le bivarate al piede, acqua per ogni singola rangara, e un quintale di pomodori.
   Mio padre dette la sua parola, anche sui pomodori, e in quella terra che lui riteneva speciale piantò di tutto, ma perlopiù furono reste di pomodoro a piru destinato ai clienti abituali e nuovi, ed erano in tanti quelli che anni prima gli avevano domandato pomodori da conserva.
   La scuola era finita, veniva meno l’impegno cadenzato giornaliero insieme al richiamo della sirena delle otto, ma sapevo che non avrei goduto di grandi libertà; quindi per non rimanere a oziare senza briglie per il paese, mi toccava seguire i miei nelle terre, lontano dai compagni e dalla ‘rruga.
    Già l’anno prima, mia madre, per evitarmi la campagna, aveva provato a farmi andare da mastro Peppino, a barbiere.
   Per un po’ di giorni mi accodai a tanti altri ragazzi; tutti seduti fuori dalla barberia e sul marciapiede, composti e colmi d’inedia. Mastro Peppino ci controllava e comandava occhio severo. Stavamo quieti, temevamo la sola, quella striscia di cuoio spesso e scuro con cui affilava i rasoi. Era lì, appesa a un chiodo, il mastro la brandiva solo con lo sguardo, noi la guardavamo timorosi e immaginavamo quanto potesse bruschiare sulle cosce e sul culo, ‘rrizzava u pilu solo a immaginare.
   Durante il giorno ci concedeva solo due permessi: uno al mattino e uno al pomeriggio, per i bisogni, oppure andare a bere a funtaneja du Campusantu.
   Noi non aspettavamo altro che il momento giusto per chiedere di andare, ma non potevamo ritardare oltre il lecito, ci avrebbe sgridato e negato un permesso all’indomani.
   Lui sapeva che eravamo lì solo per stare queti e sotto controllo, non dovevamo approdare al mestiere; in cambio dovevamo lavare il pennello dopo una barba, buttare il sapone delle rasate, curatamente raccolto sulla schedina del totocalcio, o scopare per terra dopo un taglio di capelli.
   Un po’nauseante, ma lo si faceva tutti e a turno, vergognosi e annoiati, sotto lo sguardo arcigno del mastro.
   Ci andai una simana, quel sabato non mi diede nemmeno cinquanta lire di regalia, e decisi di non andarci più.
- La Foresta ti aspetta! - esclamò mia madre appena le dissi che non volevo sapere di barbiere.
   A lei sembrava male dire al mastro che non sarei più andato, lui aveva mostrato disponibilità a tenermi.
   Meglio la foresta, pensai, anziché stare seduto per ore col culo per terra a inseguire l’ombra su quel marciapiede. 

   Non sarebbe stata la mia prima estate in campagna, del mare nemmeno domandavo. Sapevo di qualche mio compagno che ci andava, io non c’ero mai stato.
   La Foresta era la libertà, o almeno la vedevo così. Mi sentivo libero anche se la mia condizione era costretta. Lì, per i miei, non correvo rischi di nessun genere, e quando cominciavo ad annoiarmi mio padre mi trovava il daffare.
   I meandri di quelle terre sedavano le mie smanie di paese e mi ritrovavo così a trascorrere l’ennesima estate ancora laggiù, immerso tra le piantate di pomodori a piru e fagioli milanisi o maddammolu.
   Vagabondavo a caccia di folìe o di arance rimaste in cima a qualche rangara; quando mi imbattevo in qualcuna sembrava quasi fosse un regalo lasciato apposta dagli uomini addetti alla raccolta; oppure, era lì in solitudine poiché la cima era alta al punto che, per coglierla, nessuno aveva voluto rischiare la noce del collo.
   Scalare il fusto, scalzo, e arrampicarmi fino a là sopra era come dimostrare più abilità di coloro che ci avevano rinunciato.
   Quando nelle folìe trovavo i piccioni di passero o di merlo non ancora volantini li prendevo per il becco e recitavo a cantilena: “Se si fimmina ti ‘mpendi se si masculu t’offendi”.
   Se non si agitava e rimaneva perpendicolare lo stimavo “femmina”, se si dimenava con forza lo ritenevo maschio. Bastava il tempo di alzare gli occhi e vedevo la madre che passava in volo col cinguettio frenetico, minacciosa e intimorita. Poi lasciavo e andavo.
   Mio padre m’impegnava quando ci spettava il turno per bivarare; mi divertivo a stare scalzo nell’acqua corrente che riempiva mano mano le sporìe, ed era altrettanto divertente quando occorreva tamponare velocemente qualche suriciorbata che faceva uscire l’acqua fuori dal solco. Lui si preoccupava di voltare il passo grande e apriva all’acqua la rasula; in quei momenti occorreva forza e perizia per non far portar via la terra e lo faceva con una zappa che era due volte la mia. Io mi limitavo al passo delle sporie, dove la forza dell’acqua era più misurata e di facile controllo.
   Quell’anno per via delle due terre, dai Generusi e al Paravento, il lavoro venne in sovracchiù tanto che mio padre partiva da casa con la scecca che era ancora notte e tornava col buio. Io e mia madre partivamo alle sei, qualche ora dopo, con l’autobus della prima corsa, di Labbozzetta e tornavamo la sera con l’autobus di “Piminoro”stipati in quella piccola corriera come sarde, accaldati, con tutti i finestrini calati per limitare il caldo e gli odori durante quel breve viaggio di ritorno.
   Gli impegni si attrassarono per i turni del bivarare; si fece l’accordo con tutti coloro che si servivano da quella prisa dove eravamo noi e si convenne che bisognava bivarare anche di notte.
   Era l’unico modo per irrigare tutto: orti e aranceti. Capitava che qualche padrone venisse a verificare lo stato degli aranci e tastasse il terreno per stimare il tempo dell’ultima bivarata; e poi, anche le foglie torciute delle rangare avrebbero mostrato l’eventuale condizione di secchezza, per cui era necessario fare le cose per bene. 

   Una lagnanza del padrone era l’ultima cosa che volevano i coloni, le possibili lamentele avrebbero messo seriamente in pericolo la concessione delle terre nell’anno successivo; ed era capitato che a tanti, nell’anno dopo, non era stata data la possibilità di piantare.
   Così, in quel luglio caldo oltre il normale, mio padre mi chiese se avessi voluto rimanere a bivarare con lui, di notte. Non esitai un attimo e dissi sì. L’idea di rimanere in campagna di notte mi attirava molto; volevo scoprire, mi faceva sentire grande e di aiuto. Era un’esperienza nuova e ne fui incuriosito.
   La sorte quel giorno ci diede il turno dalle due alle cinque, uno dei turni peggiori, mi richiese se fossi convinto di rimanere, dissi sì. Lessi sul suo volto un velato pentimento, se avesse saputo dell’ora del turno, sicuramente non mi avrebbe proposto nulla, ma ormai la decisione era stata presa.
   Come concordato, alle due di notte, andammo al cambio dell’acqua, alla prisa; mio padre girò il passo e l’acqua cominciò a scorrere verso le nostre terre. Attrezzò e accese la lampa a olio, la pose all’interno di un cilindro di lamiera aperto solo da una parte, per tenerla riparata dal vento, e la piantò per terra, col palo appuntito che reggeva il cilindro stesso, nel punto in cui serviva fare luce.
   La luna aiutava, ma le ombre delle rangare disegnavano il buio, in alcuni punti si poteva fare a meno della lampa, in altri invece era necessaria.
   Mio padre badava al corso dell’acqua deviandola con i passi di terra e di erbe, io seguivo in parallelo, ma a distanza dalla parte opposta, proprio nel solco che limitava la rasula. Dovevo semplicemente accertarmi che le zone più lontane venissero bivarate; nei punti più bui, dove non si notava il fluire dell’acqua, mi abbassavo e tastavo con le mani in più punti, quando rilevavo che la rasula era stata abbondantemente irrigata gli urlavo di girare il prossimo passo.
   E così per tutto il turno di notte. Nelle pause tra una girata e l’altra mi raccontava di tutto, temeva che mi addormentassi sotto qualche piede di rangara; io vedevo la sua sagoma mentre lavorava e lui non poteva notare me e faceva di tutto per tenermi sveglio.
   In una delle pause mi incuriosì dicendomi del Grande Carro , del Piccolo Carro e della Stella Polare. La notte era di chiarìa e linda e cercavo, mentre scrutavo il cielo, di trovare riscontro alle sue parole. La stella Polare la notavo, ma non riuscivo a disegnare nella mia mente i carri alla vista di quelle stelle. Notavo alcune più luminose di altre, ma nulla di più.
   Disse: - Dove c’è la stella polare è il Nord - e aggiunse - Milano è al nord.
   Io guardavo ancora e pensavo quella città più distante di quanto potessi immaginare con la mia fantasia di ragazzino di otto anni.
   Lui c’era stato a Milano negli anni ’50, mi diceva della “Bertani”, la ditta per cui aveva lavorato, e poi ancora come era stato reclutato appena sceso dal treno e parlava del grattacielo subito fuori dalla stazione, un cantiere grande, una cosa altissima. E poi ancora i posti dove aveva lavorato da manovale a impastare cemento: Ospedale Maggiore, Niguarda; poi della baracca di lamiera a Villapizzone dove ci dormivano in sette e cucinavano fuori su un tripode, perlopiù riso; costava poco e riuscivano a cucinarne tanto per addubbare le fami. 

   Fu quella volta che mi contò di Peppe Menzo, suo amico e compagno, dicendo che quando spartivano il riso lui preferiva rimanere per ultimo e mangiare nella pentola dove era stato cotto, così per avere un piatto in meno da lavare.
   Mi contò pure di una sera mentre erano fuori dalla baracca a mangiare davanti a loro si radunarono, come facevano spesso, dei ragazzini milanesi con i quali avevano familiarizzato. Tra questi uno tra i più vispi notò che Peppe Menzo stava mangiando nel pentolone e gli chiese tra l’italiano e il milanese:
- Ostiu ! Giuseppe quanto riso l’è che mangi? -
   Lui di rimando in un italiano-oppidese:
- Figghju di pputtana ! sugno solo quaranta lire di riso, e simo sette!
   Fece finta di stracquarli lanciando un pezzo di legno e loro scapparono in più direzioni.
   Quei fatti mi divertivano, lui rideva e anche io. Non gli chiesi mai il perché non fosse rimasto a Milano, ma nella mente mi domandavo come sarebbe stata la nostra vita se fosse rimasto lì. Finimmo il turno, il sole si stava affacciando, tornammo alla colonica accendemmo un leggero fuoco, allargammo il pagliericcio, pensai per qualche attimo ancora a quelle stelle che avevano acceso i racconti di mio padre e mi addormentai come non mi era mai capitato.

sabato 8 ottobre 2016

NON C’E’ CCHJU’ TEMPU

di Ciccio Epifanio
     Ciccio Epifanio, riconosciuto dai più come il “Mastro cantaturi dell’Aspromonte”, non ha bisogno di etichette e di definizioni per presentarsi innanzitutto e soprattutto come poeta, sulla scia dei veri poeti di Calabria, dai Pelaggi agli Ammirà, dai Pane ai Creazzo, dai Filocamo ai Conìa, per dire solo di alcuni più vicini alla sua sensibilità. Non è facile discernere il vero artista tra le sterminate orde di dilettanti che annaspano tra improbabili versi e parole riversate nel pentolone del dialetto, ma la poesia di Ciccio Epifanio è facile individuarla subito perché non ha nulla di artefatto e di artificioso, è spontaneo fluire di suoni e ritmi antichi, di echi e melodie che spontaneamente si fanno canto, come in questa  sofferta lirica, che è  affresco di nostalgia e di rimpianto, con un amore sconfinato per quel dialetto che, come diceva Salvatore Filocamo,.. è “com'o pani/ chi facenu 'na vota, pani veru,/ 'i sulu ranu, senza corpi strani,/ 'u dialettu esti simprici e sinceru".(Bruno Demasi)



NON C’E’ CCHJU’ TEMPU

Non c’è lu tempu cchjù di ‘na vota
quandu la sira, cogghjuti a rrota,

nonna Ntonuzza cu garbu e lena
cuntava fatti chi valìa ‘a pena.

E nui cotrari tutti ‘mmagati
‘n celu toccavumu li nivulati:

la fata Morga cu setti veli
volava spisiji di lu braseri

e lu fajettu venia juntandu
mentri lu focu jia cunzumandu.

Nonna Micuzza a lu tilarinu
cusìa penzeri a puntu chinu:

paria ca cogghji trami di vita
punti e ricordi ntrizzati anita.

Lu nonnu Cicciu sempi ncazzatu
jinchìa la pippa sedutu a latu

ca ferruzzeja si la civava
e pippijandu la mpiccicava;

nescia lu fumu volandu all’ariu
cu li notiziji du giornaliradiu .

No ncè lu tempu quandu ‘a matina
davanti o’ spicu d’onna Ciccina

massaru Ciccu “Fuji ca vinni”
mungia li crapi sutta li minni:

nescìa lu latti a canaleju
pe nnui ja pronti cu tiganeju.

No ncè lu tempu chi nnudicati
Ch’i cazi curti d’arretu spaccati

ngiaciuti nterra arretu a vineja
ndi sbacantavumu panza e gudeja.

No ncè lu tempu quandu a la strata
cu nu pilorgiu e mmenza lazzata

gira e rigira tirai lu lazzu
di nchi cotraru fu figghjolazzu.

E ferrijandu pe lu paisi,
passati l’anni, li jorna e li misi,

mi cumparisti bionda allumata
parivi l’angiulu di la Nunziata,

di na regina eri ritrattu
Rosa di nomi e Rosa di fattu.

E mi guardasti, occhji lucenti,
ntisi ntassari lu cori e la menti

T’accarizzai supa lu visu
ch’era velatu di chjantu e surrisu,

nda li to labbra hjarbu di ventu
quandu a li hjuri no dun’abbentu.

E furu jorna d’amaru e meli
jornati duci di suli e feli…

mentri lu tempu tessiva la tila
la nostra barca jizava la vila.

Quandu piscammu mprima matina
bionda pigghjammu stija marina,

la vota appressu sutta la luna
fu sempi stija, stavota bruna.

Ora sperandu ca hjuhhja lu ventu
nommu la vila si pigghja d’abbentu,

voliva ancora mu cantu e mu cuntu
ma ora mi dinnu: non c’è cchjù tempu!

  (Settembre 2016)