venerdì 20 agosto 2021

U PARRARI E’ ARTI LEGGIA


di Mariastella Crupi
 
      E' venuta recentemente a trovarmi in questa estate torrida Mariastella Crupi, la piccola allieva di scuola media conosciuta tanto tempo fa in una singolare scuola della Ionica dopo qualche anno da quando mi aveva fatto pervenire dal Belgio questa preziosa lettera che ripubblico, nuovamente commosso, esattamente come me la scrisse all'epoca. Mi riempì il cuore allora, mi riempie il cuore e la mente anche adesso, e non solo per i ricordi che suscita , ma per l'amore profondo per la nostra lingua che vi traspare e per il rispetto sacrale con cui questa ex alunna , ora docente emigrata, sa trattarla senza schernirla e senza piegarla a improbabili espressioni di colore.
        Grazie del ricordo, Mariastella! Grazie per i tuoi ricordi! (Bruno Demasi)
 

      Carissimo professore, l’ho ritrovata su un social network quando meno me l’aspettavo. Si ricorda di me? Metà anni ’80, mi pare , nel Sidernese: Lei giovane preside, io alunna di scuola media che detestavo libri e banco, ancora desiderosa com’ero di giocare e di correre per le rughe di quel piccolo paese dove ho lasciato l’anima e del quale la sera, prima di addormentarmi, avverto ancora nelle orecchie i suoni e i sibili del vento tra le rocce bianche che qualcuno chiama “Le Dolomiti del Sud”. Come se le nostre montagne con la loro orgogliosa bellezza avessero bisogno di scimmiottare i nomi di montagne più fortunate per avere un minimo di visibilità tra i pochi turisti che si degnano di visitare la Locride e i resti dell’antica Epizephiri.
    Da almeno venti anni la vita mi ha portata in Belgio, dove insegno Italiano in una scuola in cui si ama l’Italiano forse più di quanto non lo si ami nella nostra Calabria e dove , per un terzo della giornata faccio la mamma di tre figli ormai quasi grandi e indipendenti (Ahimè). 
 

    Torno spesso al mio paesello costruito su una frana che scende inesorabilmente verso Siderno e mi incanto ancora  quando rivedo quella scuola in cui Lei, annoiato di fare il Preside, non vedeva l’ora se mancava qualche professore, di entrare nella mia classe e di parlarci dei poeti e degli scrittori della nostra terra. Quelle lezioni mi sono rimaste stampate nel cuore. Quante volte ho ripercorso i sentieri dei personaggi di Saverio Strati, l’uliveto di Fortunato Seminara, le rughe spazzate dal vento raccontate da Mario La Cava, le risate delle commedie di Salvatore Filocamo, le montagne paurose e stupende di Corrado Alvaro.
    Quante volte mi riecheggia nelle orecchie la voce di mia madre (ancora vivente tra quelle pietre polverose) che quando le manifestavo i miei sogni, la mia voglia di andare via dalla Calabria, mi rimproverava dicendomi “U parrari è arti leggia”, come per dirmi che i progetti sono una cosa, ma la realtà è un’altra e che è difficile realizzare nella pratica ciò che il cuore e la bocca suggeriscono e dicono ai quattro venti.
    Eppure ce l’ho fatta. 
 

    E adesso che sono lontana, inesorabilmente lontana, perché ormai la mia vita è qui e perché qui è la vita dei miei figli, mi manca tantissimo la polvere di quelle case e di quelle strade, il sibilo frequente e insolente del vento, la sacralità di Prestarona, la magnificenza di Gerace, persino la paura dei lupi che , si raccontava, girassero ancora sulle montagne fino a trenta anni fa, ma soprattutto “U parrari”, il dialetto, la lingua cosi dolce e musicale della nostra gente, la cadenza strascicata che ci rimanda ai ritmi arabi e greci, la sonorità delle imprecazioni, persino la tristezza del pianto.
    E rivedo e risento il vecchio prete-massaro e contadino che con un muccaturi lercio e sciampariato si tergeva il sudore urlando parole irripetibili alle capre testarde più di lui che non volevano rientrare a sera nello jazzo ricavato dietro la sacrestia. Risento la sua voce nasale che invita i giovani archeologi della missione francese venuti a scavare pertusa in qualche anfratto tra le rocce a stare attenti alla sua suriaca che cresceva stentata e senza acqua e poi a mangiare la cardarata di pasta llevitata che lui stesso aveva preparato e condito con olio , polvere e casu friscu.
    E risento le nenie, i canti delle donne intente all’antica tessitura tra un colpo di navetta e l’altro in mezzo all’ordito o che con le tafarìe sulla testa trasportano l’uva ai palmenti e e le olive appena abbacchiate ai frantoi di Agnana e mi domando se la lingua che insegno io ai miei alunni belgi sia la vera lingua della nostra terra o almeno la MIA vera lingua, quella che i miei avi mi hanno donato e che io ho dimenticato. 
 

    Poi quando vedo che sul Suo blog qualche bravo scrittore, come Greco, non ha vergogna di ritornare alle parole antiche, allora il mio cuore sussulta e si colma di gioia e capisco che le parole che mi diceva mia madre erano proprio vere: “U parrari è arti “! Leggia o pisanti, non ha importanza, ma è arti.
    E ringrazio mia madre e ringrazio ancora anche Lei perché mi ha insegnato il cuore della Calabria e perché prima non lo avevo mai fatto. 
   
 E La saluto di cuore.