mercoledì 29 marzo 2017

La penna del Greco: LA GRANDE FORZA DI TANTE MANI…

 di Nino Greco
     Un’altra tessera del grande mosaico sulla condizione contadina in Calabria nella seconda metà del secolo scorso, quando , a dire delle cronache e delle storie inventate sui libri di storia , in Italia si registrava il cosiddetto boom economico di cui da queste partI, oltre al sangue dell'emigrazione, sono arrivate solo le briciole.
     Protagonista ancora una volta è la donna, il motore e la mente pensante della famiglia, colei che usa le mani per i lavori più duri, le mani piene di bene per la compagna di lavoro meno fortunata, le mani per nascondere religiosamente il sudato denaro che significa pane per tutti, le mani che tracciano la croce al termine di una giornata di fatica febbrile e santa, santificando tutti: in altre parole, ancora un piccolo, commosso omaggio alla madre da parte di Nino Greco. (Bruno Demasi)

    Il sole di luglio mordeva come solo lui sa fare, quella mattinata era andata via come le tante altre di quell’estate, per me “promentina”, iniziata subito dopo la chiusura della scuola.
   Oltre ad andare a caccia di folìe tra le rangare e di granchi nelle mastre, spendevo il mio tempo a curiosare nelle ribbe della fiumara. I massi rimandavano un caldo cocente come se fosse una vaporiera; mi muovevo, scalzo, nelle tracce delle mastre ancora umide delle bivarate o saltellando tra le sporadiche oasi di ciuffi d’erba fresca. Lo scroscio della fiumara era l’unico suono che sentivo oltre al rumore, lontano e cadenzato, della ruspa che senza sosta alimentava le montagne di sabbia della cava di Marro. Quello era il confine, oltre la prisa non ci andavo, ogni tanto dovevo dare segni della mia presenza a mia madre, che, nonostante fosse certa della mia accortezza, voleva conoscere tutti i miei spostamenti.
   Lei, come succedeva ogni volta che veniva il camion di Rroccuzzu, era già immersa tra le fasolate intenta alla raccolta della vajaneja; io ci avevo provato ad aiutarla, ma reputava che per quel lavoro fosse necessario il giusto occhio, poiché Rroccuzzo era stato chiaro:
- Voglio solo vaianeja di mezzo coccio!
   Suonava come un ordine e in fondo lo era: se avesse trovato tra i sacchi di zombara fagiola tenera oppure troppo matura o secca si sarebbe indispettito e avrebbe scartato tutto il raccolto di quel sacco, e mia madre non voleva correre quel rischio.
   Qualche anno prima era successo che aveva rimandato indietro qualche colono, e oltre alla mancata vendita, e quindi al guadagno di quelle poche lire, chi incappava nella verifica rischiava, secondo Rroccuzu, di passare per truffatore.
   Non aveva raccomandato altro quel giorno che era passato a distribuire i sacchi di zombara: - La fagiola deve essere di qualità: mezzo coccio e senza foglie ! 

   Mia madre ne aveva chiesti due di sacchi, con mio padre avevano stimato almeno mezzo quintale pronta per essere venduta, era la seconda raccolta di quell’annata.
   La prima era andata bene, trenta chili pagati a ottanta lire al chilo come primizia; i primi soldi dell’annata sarebbero serviti per andare a chiudere qualche debito, specie quello della putigha di Meluzza dove nei mesi senza entrate andavo a comprare il pane o la pasta con la “libretta”, a cridenza. Un quadernino con la copertina nera dove puntualmente Meluzza segnava : data, articolo e prezzo, nulla mi dava oltre l’ordinario. Mia madre le aveva più volte ripetuto che se fossi andato a comprare altre cose con la libretta, che non fossero alimenti non avrebbe dovuto dare nulla.
   Così mi rassegnavo e aspettavo il momento giusto per chiedere una moneta da cinque o da dieci lire per comprare il tommy o le cingomme.
   Quel giorno il camion arrivò, come al solito, nel pomeriggio, si fermò sotto i pioppi, diede tre colpi di clacson per avvisare del suo arrivo e che tutto era pronto per caricare.
   Aiutai mia madre a caricare in testa il primo sacco, andai con lei per aiutarla a metterlo a terra, feci così anche per il secondo.
   Rroccuzzo era intento a stendere una cerata per terra, in quel punto sarebbero state fatte le pesate con la stratìa, e quel telone sarebbe servito per rovesciare i sacchi, scelti a sua discrezione, per verificare la bontà della vajaneja.
   In pochi minuti il cerchio si compose. Coloni e sacchi tutti intorno alla cerata, ognuno dietro ai propri, pronti per iniziare la pesata. Arrivò anche Mararosa con un sacco che conteneva meno della metà. Rroccuzzu guardo il sacco, fece un sorriso e rivolgendosi a lei disse:
- Oh gnura ! e che vi devo lasciare tutti i soldi che ho! Mi volete sbancare !
   Seguì una sua risata sguaiata di scherno, il suo volto divenne maschera e le vene del collo s’ingrossarono, nessuno dei presenti rise né accennò compiacenza.
   Mararosa era una donna avanti con gli anni, vedova da tanto tempo, viveva da sola. Quell’anno aveva chiesto un pezzo di terra quantu pe commitu ai De Zerbi, e le era stata concessa; in quei mesi come tutti gli altri coloni si era prodigata a lavorare quel pezzo di terra per godere degli ortaggi che altrimenti trovava difficile comprare.
   Alla risata di Rroccuzzu abbassò gli occhi, prese il sacco e fece per andare, Vavarella la bloccò:
-Aundi jiti, veniti cca! - esclamò, mentre afferrava il sacco con quel poco di contenuto, lo accosto al suo e prese due junte di vajaneja e le cacciò dentro. Tutti i presenti, anche mia madre, ripeterono quel gesto e in un attimo quel sacco si riempì.
   Lei un po’ scornusa non disse nulla, Roccuzzu rimase a bocca aperta, e cercando di andare oltre quel momento d’imbarazzo disse: 

- Non prendetevela a male! Stavo scherzando ! - dopo una breve pausa continuò - Oggi i sacchi da vedere sono tre! - E indicò uno di Vavarella, uno di mia madre e uno della Perduta.
   Vavarella rovesciò la fagiola sul telone, Roccuzzu si avvicinò e cominciò a scrutare, allargando il mucchio mentre silenzio la faceva da padrone fino a che:
- Va bene , pe stavota va bene ! la prossima volta meglio ! - come se stesse concedendo un favore.
   Vavarella rimise nel sacco la vajanejia e si appressò alla pesata. Il lavorante di Rroccuzzu fece passare una cropa da sotto il sacco, fece un nodo nella parte superiore agganciò la stratìa, Vavarella prestò la sua spalla alla sbarra e mentre i due sollevavano il sacco Rroccuzzu inforcò un paio di occhiali e lesse il peso:
- Ventotto chili e qualcosa……! Bonpisu- aggiunse, chiamando a suo diritto la parte eccedente oltre i ventotto chili.
   Si andò avanti fino a ultimare tutte le pesate, Rroccuzzu pagò tutti nella classica maniera: sfilando le carte da mille una alla volta da quella manata che non lesinava di sfoggiare in ogni momento. Mia madre arrotolò le quattromila lire nel fazzoletto, fece un nodo e le mise nel petto.
    Anche Mararosa custodì le due banconote da mille nel fazzoletto e nel petto, con la discrezione di donna e lavoratrice e mentre sommessamente ringraziava tutti per le junte di vajaneja: un leggero sorriso alleggeriva quelle rughe del suo volto in cui si leggeva il peso delle fatiche andate e della sua ferma dignità che non era stata scalfita affatto dalla dignitosa generosità degli amici.

domenica 26 marzo 2017

AL MODICO PREZZO DI UNA FALSA PREGHIERA…

di Domenico Rosaci

     La corruzione, questo mostro a mille teste che attanaglia l’Italia, che affligge e impoverisce da decenni la Calabria nell'indifferenza di tanta gente che quasi ammira i corrotti, li considera più furbi degli altri e perciò degni di rispetto, non è colpa di pochi. E’ la colpa di un intero popolo che ancora non ha metabolizzato i valori della sana convivenza civile, favorisce i peggiori e sopravvive a stento a sé stesso mettendosi la coscienza a posto con le ipocrisie di sempre.
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   Pretendere di cambiare la società in generale, e quella calabrese in particolare, anche se animati dalle migliori intenzioni, è vana utopia oltre che indizio di megalomania. La società l'hanno sempre cambiata, o mantenuta identica, le persone che la costituiscono e così continuerà ad essere. 
  In Occidente, ma soprattutto a latitudini depresse come la nostra, oggi la gente ha deciso in massa di aderire al consumismo, trasformando ogni aspetto della propria vita nell'esercizio di un consumo, finalizzato a  sè stesso anche a costo di raggirare e depauperare gli altri. Si consuma cibo inutile e dannoso, oggetti futili e presto inservibili, ma anche amicizie, amori ed ogni altro tipo di relazione. Anche le persone vengono trattate alla stregua di oggetti, ambite con desiderio fino a quando non si arriva a possederle, usate fino a quando fa comodo, messe da parte quando non sono più di moda, come un vecchio modello di cellulare. Persino l'ambiente viene costantemente divorato, in nome di questa moderna ambizione delle masse: raggirare e trangugiare.

   Inutile pensare di dare la colpa solo ad alcuni politici (che comunque sul piano etico, legale, finanziario ne hanno tante) , o a qualche complotto internazionale. La classe politica è il prodotto della società , non la causa. Infatti la gente va a votare politici che rubano, sperperano impunemente risorse e speculano sulle persone e sul territorio.
    E' la gente che vuole giocare a questo gioco, ed i potenti sono semplicemente coloro che a questo gioco sono risultati i vincitori, dunque operano come meglio credono e con coloro nei quali credono, indipendentemente dai loro valori e dalle loro capacità… Ciò che sta accadendo in sede nazionale o in sede regionale, pur avendo superato ormai ogni limite di guardia, è molto emblematico!
    C'è soltanto da chiedersi se un giorno questa società deciderà di cambiare strada. Se un bel giorno si stancherà di consumare senza costrutto e deciderà di riprendere quello straordinario cammino chiamato umanità.
    Ma non si aspetti un profeta, un vate, un duce che indichi la strada. Anche se apparisse, sarebbe inutile in assenza di una presa collettiva di coscienza, perché nessuno lo seguirebbe. Oppure lo seguirebbero senza neppure capire cosa abbia detto, come è successo con Cristo, invocato ancora oggi solo per continuare a consumare nell'ipocrisia e nell'indifferenza, al modico prezzo di una falsa preghiera recitata ad alta voce davanti a tutti, di un dietetico digiuno sbandierato ai quattro venti o di una via crucis con commenti prefabbricati e lacrime di coccodrillo.
   C'è un unica, possibile speranza di cambiamento, ed è nascosta dentro ciascuno di noi. 
   Ad ognuno di noi ignorarla o coglierla, trasmetterla agli altri.

domenica 19 marzo 2017

COME EDUCA LA NDRANGHETA...

di Don Giacomo Panizza
    Un emigrante alla rovescia – dalla Lombardia alla Calabria - una scelta di vita coraggiosa, quella di don Giacomo Panizza, il sacerdote bresciano che nel 1976 si trasferisce a Lamezia Terme e fonda “Progetto sud”, una comunità di gruppi autogestiti, di famiglie aperte e di servizi, iniziative di solidarietà, condivisione, accoglienza per soggetti svantaggiati.
Dal 2002 don Panizza vive sotto tutela dopo le gravi minacce di morte del clan Torcasio per aver deciso di prendere in gestione un palazzo confiscato da destinare ai disabili a cui sono seguiti molti attentati. Nonostante il suo vissuto, don Panizza respinge seccamente l’appellativo di 'prete antimafia'.
   «La legalità – ha spiega ancora una volta nell’incontro di qualche giorno fa a Reggio Calabria - o la si fa, la si vive quotidianamente, oppure non esiste”. Non ci si può fermare ad un mero legalismo, deve essere un atteggiamento che pone al centro la vita umana; il nostro sforzo deve essere volto alla giustizia sociale».
   Farlo giorno dopo giorno non è certo facile, anche perché la ndrangheta vera, non quella del folklore legalitario, non va tanto per il sottile. Un po’ di paura c’è sempre. Per contrastare la mafia serve una capacità di lotta, bisogna stare insieme uniti.
   La ndrangheta dei colletti bianchi, quella degli insospettabili che ormai domina indisturbata tantissimi comuni della Calabria e produce apertamente vari livelli dirigenziali in tanti settori dell’Amministrazione Pubblica, da qualche tempo sta mettendo radici al nord. Che differenza c’è rispetto al Sud? “Sono due mondi completamente diversi - ha spiegato il sacerdote - , al Sud la mafia stra comanda, è parte integrante del tessuto sociale, le persone sono sottomesse, vivono quotidianamente l’umiliazione: la malavita è senza compromessi”. Al Nord il discorso è ben diverso: «Qui è solo questione di soldi, bisogna vigilare su ogni appalto, dietro ogni flusso di denaro».
   Don Panizza interpreta con il suo continuo presidio sul territorio, un impegno non solo fisico, ma soprattutto spirituale, un sentimento che le cosche tendono a reprimere. E con freddezza ed estrema sincerità, don Panizza racconta come le cosche cercano di frenare le sue iniziative. I mafiosi tagliano le gomme, manipolano i freni alle macchine, sono addirittura arrivati al punto di manomettere i freni alla vettura di un disabile.
    Nel suo ultimo libro “Cattivi maestri” traccia una riflessione attenta sulla “Pedagogia mafiosa” che continua ad allevare indisturbata generazioni di giovani venduti alle cosche e alla psicologia ndranghetistica con i suoi stili di vita inequivocabili e sulla sfida educativa che dovrebbe interessare la Scuola, la Chiesa e lo Stato per  recuperare azioni educative serie e progetti realmente efficaci. Una sfida che solo sporadicamente e debolmente viene accettata, al di là di tante azioni di maniera che  spesso sembrano voler coprire soltanto il nulla se non la connivenza… (Bruno Demasi)

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   Da circa un secolo e mezzo quelle mafiose sono tra le rare famiglie rimaste costanti nell’educare in proprio i figli e le figlie. A scuola li mandano esclusivamente per istruirsi. Educare alla mafia è una pedagogia coniata, sperimentata e trasmessa da loro, è un sapere che tramandano di generazione in generazione obbligatoriamente, altrimenti quei modelli di “famiglia” cesserebbero di esistere. I clan delle varie mafie meridionali sono flessibili e si ammodernano su tanti aspetti, ma non sull’educazione dei loro componenti. Non la delegano a nessun altro al di fuori della parentela più prossima e più fidata. Ci tengono di più, e snobbano quella proposta dalla religione e quella offerta dalla scuola e dalla patria.
     I clan mafiosi impartiscono un’educazione totale, dura, mortale. Sembra un controsenso moderno, ma ci sono adolescenti e giovani non appartenenti a famiglie mafiose che cercano i clan, attratti da determinati stili di vita dei coetanei e dei più adulti. Alcuni giovani cercano i boss per bisogno di una paghetta perché disperati, altri perché infatuati da ruoli e personaggi seguiti nei programmi televisivi, altri ancora perché succubi del mito del denaro facile, dell’uso delle armi e delle grosse moto o automobili quando mettono a segno i loro tipici colpi criminali. 

    Molti adolescenti non sanno a cosa vanno incontro entrando sotto giuramento in un clan mafioso, mentre …vi sono giovani che si muovono in gruppo imitando i malavitosi delle fiction, dei film e della realtà, i quali dicono di sapere a cosa vanno incontro, ma non gli importa la vita perché l’hanno già buttata via. Per genitori e educatori, la Chiesa e la polis, questi sono figli o giovani definitivamente perduti? Sembrano meno umani però sono veri, come vere le azioni criminali che compiono, come sono reali le cornici mentali e i valori che li guidano. Come purtroppo è vera l’assenza non di aule e scuole, ma di maestri e maestre dediti a loro.
    Tra i giovanissimi che incontro ce ne sono parecchi che pensano sia facile entrare in un clan mafioso. Che basti farsi avanti. Farsi vedere “bravi” e disponibili. Invece non conoscono le intenzioni dei mafiosi, secondo le quali sono i mafiosi stessi i soli che possono scegliere chi inglobare nei loro clan. Solo loro selezionano i minorenni da mandare allo sbaraglio, a commettere reati di poco conto – come, ad esempio, portare una bottiglia incendiaria davanti a una saracinesca o infrangere i vetri di un negozio o bucare le gomme di un’automobile – per non andarci di mezzo loro stessi. 

    Ai giovani di famiglia “regolare” che vanno in cerca di chi li “battezzi” nei clan, bisogna impartire l’istruzione che sono i mafiosi che li vagliano in base alle loro incapacità a ribellarsi ai capi e per le loro predisposizioni a farsi comandare…Occorre insegnargli che li preferiscono perché sfruttabili. Alcuni di questi, al fine di preservarli dall’educazione alla mafia che riceverebbero dai ragazzi “di famiglia” mafiosa rinchiusi nella stessa cella della prigione, d’accordo con il tribunale, li accogliamo in vari servizi della nostra comunità in alternativa al carcere…

    Dentro la mentalità comune confluiscono più forme di mafiosità: quella dei boss e quella delle donne di mafia, quella dei giovani in carriera nelle cosche e quella degli altri giovani, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città e dei territori e – finanche dopo la scomunica di papa Francesco ai mafiosi – ancora delle Chiese. Si esprime attraverso regole “educative” forzate, piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, non certo alla crescita umana dei suoi giovani componenti, per i quali è stabilito che sia secondario persino il sentimento dell’amicizia.
     Rivolte all’interno come regolamenti rigidi, queste norme si impongono nelle comunità locali. Esse insegnano ai giovani il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali, quali ad esempio riscuotere il pizzo… 

    L’educazione dei giovani criminali avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano e cosi dimostrano che uno sparuto gruppo di persone riesce ad “ ammaestrare” interi paesi, interi quartieri, intere città. Un giorno in una scuola il dirigente scolastico convocò un boss il cui figlio di terza media faceva il “piccolo boss” con i coetanei e gli disse: "Signore, purtroppo Suo figlio a scuola fa il prepotente (leggi “mafiosetto”) con i coetanei". Come immediata risposta, il papà va dritto dal figlio e gli molla una sberla ricordandogli: "Che cosa ti ho insegnato io? Che queste cose a scuola non le devi fare!", precisando subito dopo:" E’ fuori che le devi fare!".