sabato 2 settembre 2017

UNA CIAMBRA PER NON MORIRE DEL TUTTO…

di Bruno Demasi

   Per noi della Piana, “Ciambra” è l’ultimo dei tuguri, l’ultimo dei ripari dal freddo, dal sole o dagli sguardi indiscreti: una capanna di frasche o di rifiuti ( "chambre"  per i Francesi che ci hanno lasciato questa come tante altre parole  che la "buona scuola" ha dimenticato di insegnare), ma anche un pezzo di stoffa senza significato, una copertura improbabile delle nostre nudità  o un brandello di terra buttato come un osso agli ultimi.
   Per i Gioesi è anche un toponimo, lo scampolo estremo di spiaggia in quello che era il quartiere o la zona più periferica del paese, là dove verosimilmente anche in passato sorgevano le capanne di cartone dei rom, là dove, come oggi, si consumavano le precarie esistenze di chi viveva ai margini della legalità , ma anche di una società  più ampia spolpata dall’individualismo e dalla paura atavica verso chi spara e se non spara minaccia e se non minaccia cova nell'ombra, il che fa ancora più paura…

    Un toponimo, una parola evocatrice di tante sorti dimenticate o da dimenticare, un mondo minimale di oppressi e di ladri, come il piccolo rom Pio che dopo l’incarcerazione del padre e del fratello si fa carico di tante bocche da sfamare in famiglia rubando sui treni i bagagli ai viaggiatori e  vendendoli con l’aiuto o la complicità di un immigrato africano che rappresenta l’universo amplissimo e variegato di gente senza storia e senza nome che oggi popola la costa della Piana, e non solo negli inferni che sono i ghetti di Rosarno e di San Ferdinando, sui quali sociologi e giornali gettano fiumi di inchiostro di tanto in tanto giusto per dovere d'ufficio... 

    Un’umanità senza storia e senza nome che si sposta parossisticamente da un luogo all’altro in cerca di qualche moneta e di cibo e di vita, scacciata dai treni al freddo o al sole delle stazioni costiere, scacciata dalle case e persino dei ripari di carta che sorgono come funghi ai margini delle tendopoli di turno, dove , nell’incuria delle istituzioni, non ricevono neanche il pocket money che potrebbe aiutarli a credere in un barlume di dignità…un’umanità nomade quasi invisibile, se non all’occhio attento di Jonas Carpignano e alla sua macchina da presa. 

    Pio, il suo amico africano e il regista di questo supendo film, che si è affermato prepotentemente al Festival di Cannes, nato da un cortometraggio del 2014 con lo stesso titolo ( ‘A Ciambra) sono un tutt’uno: tre facce inconsuete di un gioco di dadi che scandisce la sorte di centinaia, migliaia di emarginati a Gioia Tauro come in tutta la Piana che da Gioia Tauro alla montagna che la chiude a S-E è ormai solo  un cumulo di ricordi e di problemi.
    Qualcuno ha detto che in questo capolavoro della cinematografia girato nel ghetto di Gioia Tauro lo sguardo del regista è perfettamente orizzontale (non esalta, non denigra), la macchina da presa non si frappone, ma diventa corpo unico della narrazione, ed ha perfettamente ragione perchè  i destinatari del racconto e l’oggetto del raccontare stanno sullo stesso piano.   
   Dopo tanto cinema neorealista che sopravvive ancora a se stesso, dopo tanta commedia all’italiana che intride persino le tragedie di ndrangheta raccontate dalla macchina da presa, è qui la rivoluzione di “A Ciambra”, che non spiega nulla e non si propone di additare nulla, ma vive soltanto la stessa vita degli individui che vuole raccontare...