sabato 28 ottobre 2017

La penna del Greco: PROVE DI VENDEMMIA ASPROMONTANA


di Nino Greco
Nino, stavolta voglio introdurre il tuo nuovo racconto rivolgendomi a te direttamente. Stai lavorando ancora sodo per stendere l’affresco sulla civiltà contadina di questo territorio aspromontano che nell’ultimo secolo forse ha costituito un unicum in tutto il Sud. Lo testimonia eloquentemente questo ulteriore pannello che ferma l’obiettivo sul momento conclusivo del terribile lavoro di un anno nella vigna lasciato alla responsabilità totale del colono e su quello immediatamente successivo, quello della vendemmia, lasciato all’arbitrio e all’avidità del padrone del terreno che non sa, non conosce, non crea eppure pretende di imporre ritmi e calendari di lavori: una storia che, ahimè, si ripete spesso in una civiltà di pavide clientele e di rozzi padroni di questo o quel vapore.
   Oggi le vigne nel nostro territorio non esistono più, spazzate dall’incuria e dall’avidità di guadagni migliori attraverso altre colture, specialmente quella dell’olivo, che nel tempo ha rivelato la sua estrema fragilità economica. Oggi non esistono più le sapienze antiche di chi conosceva a pelle l’arte della viticoltura e del vino in una sorta di sintesi vivente di secoli di esperienza ormai svaniti nel nulla, soffocati dalla volgarità di una politica che dal dopoguerra a oggi ha inteso solo uccidere le nostre cose migliori anziché rivitalizzarle, seminando trappole col miraggio di facili guadagni e perpetrando altrettanto facili rapine più o meno legalizzate. Una politica che si è riempita la bocca  per decenni di una riforma agraria mai attuata e che ha prosperato all'ombra di un Feudalesimo di fatto sopravvissuto dalle nostre parti almeno fino agli anni '60/'70 del secolo scorso checchè ne dicano i mille meridionalisti improvvisati che imperversano nelle librerie.
   Restano le testimonianze, ma al di là dei muti e improbabili reperti esposti nelle decine di mostre stabili di fantomatiche “civiltà contadine” creati in altrettanti paesi della Piana privi di fantasia, la tua è la migliore perché non è statica e fredda collocazione di oggetti scontati, ma vibrante e rivitalizzante resurrezione di parole, suoni, tecniche e sofferenze di un passato neanche tanto lontano e vissuto in prima persona. (Bruno Demasi).
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- Matino partiamo presto - disse mio padre mentre eravamo a tavola.
- Alle cinque vado a prendere la scecca, alle cinque e mezza, teniti prontu - precisò.
Non aggiunse più nulla, solo mia madre voleva fare qualcosa per risparmiarmi quella domenica alla vigna.
La scuola era cominciata da poco e lei pensava che il mio nuovo dovere scolastico fosse più gravoso e che la scuola media richiedesse meno trascuratezze.
Per me andare a Sanzo quella domenica era invece una mezza contentezza dettata dalla curiosità di seguire da vicino la misurazione della zuccarina per poi stabilire le date del vindigno.
Di lavoro non avremmo fatto nulla se non stendere la paglia sotto la sorbara in modo che le sorbe, cadendo in modo naturale, non si fracassassero toccando terra, un suolo che dopo un’estate secca e rovente pareva cemento armato. Qualche burrasca estiva aveva cacciato, e per qualche giorno la calura di un luglio torrido, attutita a tratti in agosto e in settembre, ma ora un’aria mite ci stava accompagnando in quei primi giorni di ottobre. 
La sorbara era poco lontana dal palmento, non era di proprietà dei Terranova, faceva parte della Batia, nella confinante terra Dei Poveri. 

Noi, così come i coloni di Sanzo, la trattavamo come se fosse nostra. Era enorme e nelle giornate di dubra o quando si spagghjarava la vigna diveniva il luogo dove, a mezzogiorno, si tiravano fuori le truscie e si mangiava tutti assieme. Lo spuntone su cui spiccava era il punto più fresco della zona, l’ombra delle frasche della sorbara e una vorija, che in quel punto non mancava mai, accompagnavano quelle pause di riposo.
Facemmo in tempo ad allargare la paglia e a raccogliere i fichi d’india col coppo, gli ultimi rimasti, quando dallo stradone, che attraversava le vigne e l’uliveto della Batia, spuntò la giardinetta di Don Carlo.
Il rombo del motore e il cupigghjuni di polvere, che lasciava dietro, furono d’avviso anche per Nato, il guardiano.
La macchina si fermò davanti al palmento, scesero prima Celestino, il fattore e poi Don Carlo; mio padre si avvicinò al padrone, lo salutò con il solito riguardo e poi mi disse di andare ad avvisare il guardiano e di chiamare gli altri coloni. 

Non persi tempo e mi avviai di corsa nel violo che filava dritto tra le partite di vigna. Non ve ne fu bisogno, sia Peppino che mio cugino Cenzo insieme a Nato stavano già arrivando.
Parlarono sull’annata; ognuno di loro disse dei lavori, del tempo, finendo con l’affermare che sarebbe stato un vindigno buono di qualità, ma manchevole di quantità. Il sole e le poche piogge, da come riferirono tutti, avevano alzato sicuramente la bontà del mosto e limitato il quantitativo.
Don Carlo non si mostrò soddisfatto, pareva che a lui interessasse poco la qualità. La sua costante domanda era: - ma sarà meno dell’anno scorso?
Nessuno osava sbilanciarsi sulla previsione, anche perché un’annata ricca di mosto non dipendeva esclusivamente dalle piogge; contava molto la pota fatta in inverno e come ogni colono aveva proceduto con la coltura. Tutti fattori che messi assieme determinavano la sorte di un’annata.
A Don Carlo premeva avere una stima di massima. Doveva disporre la preparazione delle capienti botti della cantina “Terranova” per poi procedere alla vendita nel periodo della “smammatura”.
Per lui poco contava la tenuta del vino, era più importante portare in cantina più mosto possibile.
Mio padre, come gli altri coloni, teneva molto invece a una buona riuscita del vino. Quel poco che avrebbe venduto doveva essere buono e che i pochi compratori non si sarebbero dovuti lamentare per la scarsa tenuta, con annesso rimprovero che in poco tempo era andato all’aceto.
Voleva che si dicesse bene del vino di Sanzo, forse più per orgoglio che per altro.
Celestino aprì lo sportello posteriore della Belvedere, tirò giù una valigetta in legno e non appena dentro il palmento la vuotò del contenuto: un cilindro in vetro e un termometro con alla base un rigonfiamento saturo di palline di piombo.
Quello strumento m’incuriosiva, ogni qual volta lo vedevo cercavo di scrutarlo attentamente per scoprire quale legge fisica potesse determinare in modo preciso la gradazione del mosto. Mistero, per me.
Qualche volta avevo chiesto a mio padre cose spingesse quell’astina graduata, e lui con poche parole mi aveva risposto che la quantità di zucchero presente nel mosto faceva risalire la barretta verso l’alto, e il numero che si sbucava fuori dal mosto, in linea con il bordo del cilindro, indicava la zuccarina. 

Ci rinunciavo, io ci immaginavo lo zucchero di casa e non riuscivo a coglierne la causa.
Tutto fu pronto, mio padre mi chiamo e mi disse:
- Prendi il catino e vai nella partita di vigna di Cenzo, alla quarta resta entra a destra e cogli due grappoli, uno di agghjianicu e uno di lacrima, poi vai a da noi, sotto violo e cogli due grappi, uno di magghjoccu e uno di cuda i vurpi; poi passi da Peppino e quando arrivi alla prima resta, limite della nostra vigna, c’è un pede di champagne, ne basta solo uno di grappo. Prima di tornare vai nelle nostre costereje e aggiungi ancora un grappo di agghjianicu e uno di magghjoccu; finito il giro può tornare.
Non me lo feci dire due volte, presi il cato e corsi via, giù nel violo; mi addentrai nella vigna e colsi i grappoli seguendo le indicazioni di mio padre.
Avevo imparato, negli anni, a riconoscere la qualità della racina. La maggior parte delle viti davano agghjanicu e magghjoccu, poi c’era la lacrima, la champagne, l’occhi i voi, ‘a muscateja, a ‘nzolia, la corniola, e negli ultimi anni aveva innestato anche qualche pede di “bordò”. Nel violo che portava alla nostra baracca, sotto alla ficara melangiana c’era un piccola pergola di fragola nera, quei grappi non arrivavano mai a vindigno, la si mangiava prima.
La cuda di vurpi era la mia preferita, un grappo nel suo insieme sembrava davvero una coda di volpe e quando era nel pieno della maturazione quei piccoli acini divenivano color oro e davano un sapore per me non aveva uguali; la reputavo più buona dello zibibbo.
Nella nostra partita di vigna c’era un solo piede di zibibbo, mio padre curava quella vite come se fosse la preferita, dalla zolfatura alla spagghjarata. E quando gli acini cominciavano a prendere forma lui ci andava tutte le mattine per verificarne la crescita e per notare se vi fosse presente qualche cocciu di janca.
Era il parassita che colpiva i vitigni più deboli, e il pede di zibibbo per lui rappresentava il testimone da cui riusciva a intuire lo stato di salute della vigna intera.
Gli avevo chiesto come mai non avesse innestato più viti di zibibbo e lui aveva sempre risposto che la zona non offriva una condizione adatta per quella qualità.
Fui di ritorno col cato pieno dei grappi campioni.
Il guardiano comincio a premerli nello stesso contenitore e quando tutti gli acini furono premuti prese un bicchiere e riempì il cilindro di vetro fino all’orlo e fece calare all’interno l’astina graduata, Don Carlo inforcò gli occhiali, tutti si avvicinarono, anche io; Nato alzò a favore di luce il cilindro da cui colava mosto e sentenziò:
- 23, bonu ! - Ventitrè gradi zuccarina facevano intuire che la gradazione del vino sarebbe stata intorno ai 13° di alcool.
Vidi lo sguardo di mio padre soddisfatto, il risultato diceva che nel giro di qualche giorno si poteva procedere con la vendemmia. Anche il guardiano e gli altri partitari erano dello stesso parere; solo Don Carlo si mostrò restio e disse:
- Possiamo aspettare ancora dieci giorni, poi faremo di nuovo la zuccarina - continuò - questo è il mese delle piogge e una buona piovuta potrebbe dare acqua a questi grappi che sono asciutti.
Il guardiano e i coloni si guardarono, le loro facce non nascosero il disappunto.
- Non possiamo arrivare a fine ottobre col vindigno - fece il guardiano rompendo il silenzio - se la lasciamo ancora sulla vite diviene solo cibo per le vespe.
- Una piovuta adesso non sarebbe d’aiuto, la farebbe “mpurrire”, purtroppo è mancata l’acqua a settembre, quello sarebbe stato il tempo giusto - aggiunse mio padre.
Don Carlo era riottoso e di poche parole, mal sopportava che qualcuno potesse mettere in discussione una sua proposta, era abituato a decidere anche per gli altri, ma in quel frangente capì che non era il caso di insistere. 

Vero, la terra era sua e il palmento pure, ma il lavoro di un anno, e le fatiche di: pota, scazare, zappare, zolfarare; poi ancora pompiare, un mese e mezzo di verderame dato con la pompa in spalla, per continuare, in piena estate, a ntajare e spagghajarare, erano state dei coloni.
Sudore e fatica, senza tempo, di uomini e donne; dedizione di famiglie intere dall’alba al tramonto
- A vigna caccia tigna - mi diceva spesso mio padre. In quella frase c’era la considerazione più vera su cosa significhi lavorare una vigna, impegno e preoccupazione costante al punto da far divenire calvo anche il più zazzaruto degli uomini.
Il guardiano usci nello stradone, colse quattro pezzettini di legno tre di uguale lunghezza e uno decisamente più corto. Li chiuse tra le dita facendoli sporgere nella giusta misura,
chi, tra i quattro coloni, avesse pescato il piruni più corto avrebbe dovuto dare inizio alla campagna di vendemmia.
Toccò a mio cugino Cenzo, la sorte diede a lui l’incombenza di principiare il vindigno, gli altri sarebbero arrivati a mano girando, procedendo in sequenza per come erano le partite di vigna. Si stabilirono i giorni sia per la vendemmia che per la cunsinna del mosto; tutto pattuito in modo chiaro, senza tempo da perdere: la vendemmia poteva avere inizio...

domenica 22 ottobre 2017

“NDRANGHETA ? LA CHIESA DEVE DENUNCIARE IL MALE “


 di Bruno Demasi

     Agli occhi e alle orecchie dei benpensanti un’ espressione come questa forse è tollerabile solo se lanciata dal Papa o dagli organi ufficiali della C.E.I. Se invece è ripresa e borbottata timidamente da qualche laico, alte si levano le strida delle vestali dello status quo sociale ed ecclesiale nel quale tutto deve restare com’è al di là delle dichiarazioni di principio o delle fumose omelie ( laiche ed ecclesiali) in cui ci si scaglia contro tutti e contro tutto per non colpire nessuno, stendendo sulle nudità doloranti della gente oppressa da un ordine mafioso evidente a tutti i livelli il pietoso lenzuolo dell’ipocrisia secondo il quale la Chiesa è madre di tutti, ndranghetisti compresi.
     Eppure quella che ho ripreso nel titolo  è un'espressione usata qualche giorno fa da un vescovo calabrese, Mons. Oliva, vescovo di Locri-Gerace, in occasione della giornata di preghiera per la conversione dei mafiosi da lui indetta e celebrata al santuario della Madonna dello Scoglio a Placanica. Un evento passato in terzo o quarto ordine dai media locali, gran parte dei quali ormai asserviti allo strapotere ndranghetistico dei colletti bianchi bruzi. Un evento che nella sua semplicità ci detta almeno quattro elementari riflessioni:

  • il "male" di cui parla il vescovo Oliva non è necessariamente un fatto di sangue o l'antefatto mafioso, ma tutto ciò che riguarda i linguaggi, verbali ed iconici, i messaggi, le frequentazioni, le consuetudini mafiose che avvelenano i rapporti interpersonali e inibiscono lo sviluppo sociale e civile;
  • il fatto stesso che una chiesa locale , quella della Locride, organizzi e celebri una “giornata di preghiera” contro lo stile di vita mafioso implica il riconoscimento chiaro che da questa malapianta hanno origine i mille mali della Calabria e, per stretta conseguenza, della chiesa stessa;
  • ci si chiede, di rimando, perché tra le mille “giornate” e le mille bomboniere senza senso celebrate dalle chiese locali non si solennizzi una giornata analoga in tutte le diocesi e in tutte le parrocchie;
  • il vescovo di Locri-Gerace non parla evidentemente a nome proprio, ma di tutta la chiesa di Calabria: se è questa la posizione della chiesa calabrese ( e lo è) non si comprendono le mille reticenze di cui è protagonista ai vari livelli il mondo ecclesiale calabro che, preso dalle proprie ritualità, dai propri inviti, dalle proprie alleanze, dai propri libri mastri, non trova il tempo per pronunciare almeno due parole nette e chiare contro la mentalità mafiosa che tutto inquina e tutto divora quotidianamente. 
 
 Se poi  il vescovo di Locri- Gerace aggiunge che : “Occorre perseguire tutte le vie, anche quella della preghiera, per sconfiggere la ndrangheta. Non è possibile piegarsi ad essa né assuefarsi alla mentalità mafiosa” ci si ritrova davanti a un' espressione ancora più provocatoria della prima: l’assuefazione alla mentalità mafiosa si respira e si succhia con il latte materno nelle case di Calabria e sono poche, pochissime le parrocchie di frontiera in cui lo stile ecclesiale partecipativo e inclusivo, aperto al dialogo, ma inflessibile nella denuncia, impedisce di piegarsi e di far proprio, anche nella banalità quotidiana,  lo stile mafioso ormai imperante.

mercoledì 18 ottobre 2017

L'ASPROMONTE E L'ANZIANA SIGNORA

di Ester Pandolfini
    Chi era in fondo la signora Mancini, quella donna senza tempo, per alcuni giovanissima di cuore e di spirito, per altri da sempre irrimediabilmente vecchia come il ritratto della celebre illusione ottica di Boring? Una persona catapultata dalla sua microstoria in un paese dell’Aspromonte arroccato dentro le sue certezze stucchevoli, sommerso da una coltre di sonno e di ipocrisie che da sempre lo hanno sottratto ai veri circuiti culturali e di sviluppo sociale. Una donna che , nata e vissuta a lungo altrove, si era innamorata di Oppido Mamertina e della Chiesa locale, delle sue ruspanti iniziative sociali, dei suoi maldestri tentativi di fare cultura là dove la povertà toglieva ai più ogni spazio e ogni voglia di fare altro che non fosse il mestiere della sopravvivenza quotidiana.
   Ma lei non si arrendeva, credeva nella forza redentrice dell’arte, del bello, della musica, del teatro negli anni in cui l’unica pedagogia possibile era quella della discriminazione e della divisione sociale e l’unica forma di inclusione – ammesso che lo fosse – si celebrava all’ombra del campanile da sempre accogliente per tutti coloro i quali volevano evadere dal brutto quotidiano, anche a costo di fare i conti con le mai mancanti persone egoiste che della frequentazione smodata e assolutizzante della parrocchia avevano fatto – e purtroppo continuano a fare – una missione personale dagli effetti asfissianti per la Chiesa stessa.
    Una donna strana e intelligente per un paese a sua volta strano e rassegnato ai raggiri dei prepotenti di turno mascherati di perbenismo, che questa bella pagina di Ester Pandolfini rievoca qui con amore e disincanto restituendoci uno squarcio commosso della storia di una vita che tutti ormai avevamo dimenticato. (Bruno Demasi)

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    A quattordici, quindici anni non avevo certo il problema di annoiarmi, a parte la scuola e i compiti ai quali, spesso, destinavo un tempo rubato a tutto il resto, davvero residuale, con grande disappunto di mio padre che si illuminava quando mi vedeva china sui testi scolastici, e che si adombrava visibilmente allorquando costatava che in casa non c’ero mai, e se c’ero era per pranzo, merenda di corsa, sempre con qualche compagna di giochi al seguito.
    Era il periodo in cui si frequentava la scuola di musica tenuta, con molta passione, dal maestro don Vicenzo Tropeano, e ospitata in alcuni ampi locali della scuola elementare. Le  attività promosse dall’Azione Cattolica coinvolgevano molte persone, che abitualmente frequentavano la Chiesa e tutto ciò che da essa e per essa veniva organizzato e nei locali di via Mamerto, dove prima c’era l’asilo, e anche dopo, per altre attività, c’erano sempre le suore, ho trascorso quasi tutta la mia infanzia e adolescenza. Vi ho frequentato l’asilo, poi, per un lungo periodo, l’Azione Cattolica, dove sono pure stata impegnata nel ruolo di Responsabile ACR, ed anche il cosiddetto laboratorio, tenuto, appunto, dalle stesse suore. Ricordo i nomi: suor Nicoletta, suor Maria Rosa e poi c’era, lei, la superiora. Elemento di spicco era don Luigi Blefari, il parroco della Cattedrale, figura dominante, le cui scelte e parole erano legge indiscussa. Andava energico per i corridoi con la sua tonaca svolazzante, sempre rosso e accigliato in viso, la bocca piccola e le labbra sottili da cui usciva una voce metallica dai toni perentori e autoritari.
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      Incredibile come una persona che arriva da fuori, così diversa dai paesani - sia per l’aspetto fisico che per le abitudini, i modi di fare, così come appariva lei, la moglie del direttore del Banco di Napoli, - possa entrare così bene a far parte della gente del posto. La signora Mancini era una donna magra, bruna, di un colorito abbronzato, gli occhi scuri, pronti al sorriso ma anche al disappunto, un po’ velati quasi a celare una sua intimità insondabile e volutamente o inconsciamente sottratta al giudizio del popolino locale. Quando l’ho conosciuta io, diversi anni dopo il suo arrivo in paese, il suo viso era diventato grinzoso e lei ormai era ritenuta una di noi, anzi, era diventata un riferimento insostituibile, conosciuta come il tre di denari. 

    Aveva i capelli legati in una crocchia morbida che ballava, in maniera buffa ma dolce, insieme con i movimenti del suo fisico scattante e che raggiungeva un’apoteosi di incisività e di solennità quando le sue nervose mani, anch’esse grinzose, sembravano ora volare ora scattare sulla tastiera del suo vecchio pianoforte che sapeva suonare solo lei così bene, nonostante alcuni tasti un po’ sbilenchi: pianoforte e Fanny Mancini erano fatti l’uno per l’altra in un miracolo di immedesimazione tra il semplice oggetto e quell’originale straordinario essere! 

     Viveva in un ambiente che sembrava appositamente dipinto per lei. Presumo sin dal suo arrivo, ma devo affidarmi ai miei ricordi e all’intuito per ricostruire qualcosa della sua interessante storia. La sua abitazione era situata in un contesto che appariva subito, appena vi si faceva ingresso, elegante, un po’ vissuto e caratterizzato dal tempo che dava una patina di passato, forse anche per lo stile bella époque delle architetture, delle scale, diverse, che si aprivano nell’unico cortile di quel palazzetto signorile, il cui ingresso principale e molti balconi e finestre si affacciavano sulla piazza principale.

    Scrivere di lei emoziona e costringe ad andare a ritroso, aprire quello scrigno custodito nella mente. Come è perfetto il cervello, basta un odore, una sfera di sole che si poggia sul fascio d’erba di una siepe, l’ abbaiare di un cane e si associa con un miracolo autentico l’attimo che emerge dal nulla e si ripresenta prepotente, reale. Questo è l’incanto dei ricordi che per un attimo fuggente ti restituiscono le emozioni. Ti pare nulla poter risentire l’amore, la gioia di avere accanto persone care, il dolore pungente dell’abbandono....
    Eccomi a casa della signora Mancini, è tutto vivace, c’è molta gente in giro, tante ragazze vocianti, i gatti che, sbucando da ogni dove, girano padroni lasciando il loro inconfondibile odore che, oso dire, ha il suo fascino. Stiamo preparando il revival di un’operetta: regia della signora Mancini, musiche originali, costumi suggeriti dalla regista e demandati, per la realizzazione, alle famiglie delle interpreti.
    Lo spettacolo era organizzato dall’Azione Cattolica e, secondo il genere e l’importanza, veniva rappresentato in sedi diverse: nel salone dell’episcopio, se ritenuto più importante; nei locali dell’asilo, se più modesto. Si faceva affidamento e si ricorreva alla disponibilità e alla generosità dei parrocchiani, conoscendo e sapendo sfruttare le diverse attitudini, esperienze e capacità di ognuno.
   Era tradizione che per alcune ricorrenze, Carnevale, Natale, si svolgessero degli spettacoli che davano vita e movimento e servivano per tenere vivo lo spirito di appartenenza a quella comuntà che era, nel periodo, il maggiore, se non esclusivo, riferimento per la quasi totalità della cittadinanza.
   Erano i primi anni ’70 e si aveva l’età più bella della vita in cui la spensieratezza è di norma assoluta, gli affetti non sono solo quelli della famiglia: a quindici anni, quando frequenti il liceo, un compagno può rappresentare il tuo universo.
    In occasione di qualche festa  molto sentita, forse allora anche di più, la Signora Mancini ci preparava per lo spettacolo e tutti i giorni andavamo a casa sua per le prove. Ci sapeva motivare, ci spiegava che quei testi erano brani d’operetta, già rappresentati nel periodo fascista anche davanti al Podestà di Oppido. Assegnava poi i ruoli e, quella volta, il mio era quello di fare la presentatrice, ma io, pur essendo orgogliosa di svolgere un ruolo così importante, ero un po’ dispiaciuta di non poter cantare.
    Ogni canzone era accompagnata dalla danza e da una vera e propria scenetta da interpretare. Una volta imparato il testo a memoria, durante le prove, lei, oltre ad accompagnarci al pianoforte, seguiva il canto e la danza. Ogni passaggio veniva sottolineato dal motivo e dalle note e la Signora con vera maestria ci guidava nella esibizione. 

   I giorni delle prove - mi pare di ricordare che i preparativi siano durati più o meno tre o quattro settimane - furono impegnativi ma divertenti, un’esperienza importante, eravamo coinvolte ed entusiaste, prendevamo tutto molto sul serio perché l’impostazione data, lo stile di quella piccola donna magrissima trapelava da ogni suo poro, dalla sua voce, dal suo estro, dall’ambiente dove ci accoglieva. Un disordine che parlava di lei, dell’importanza che attribuiva a quello che stavamo facendo e la rendeva unica, diversa da tutte le nostre mamme e zie e maestre che amavano l’ordine, la pulizia estrema della casa, la cucina. Era distratta Fanny Mancini, la sua era quella sbadataggine mischiata ad un’ innata eleganza condita dal fascino di una trascuratezza della sua persona scelta come stile di vita.
    Un giorno si recava come d’abitudine in chiesa e, mentre attraversava la strada, qualcuno ha sentito l’esclamazione: “Dio che sbadata, mi sono messa le scarpe di mio genero!”. Lei, la signora Mancini, metteva al primo posto altro; qualcosa che arricchiva lo spirito e che rendeva indimenticabile il tempo trascorso in sua compagnia.
     Sono passati cinquant’anni ma io ricordo a memoria tutti i brani, tutte le canzoni e l’entusiasmo nei volti di tutti noi che le abbiamo interpretate e il visetto buffo di lei che, a bella posta, eccedeva nella mimica per farci capire il senso da attribuire alle parole, il messaggio che dalle storie bisognava far arrivare al pubblico, il messaggio educativo e di civiltà che, senza dirlo, lanciava alla strana gente di questo strano paese capace di ridere di tutti e di tutto, ma non di se stesso.