sabato 9 dicembre 2017

La penna del Greco: COMPARE, FAVORITE !!

di Nino Greco
    L'arte del rispetto fra pari nella civiltà contadina  da molti ormai dimenticata in ossequio alle moderne lotte per la supremazia ora su questo ora su quello. L'arte  venuta meno nella civiltà dell'arroganza e della prepotenza. L'arte perduta che un tempo neanche tanto lontano costituiva il tessuto connettivo nelle società rurali della Piana di Gioia Tauro e specialmente nel contesto pedemontano : un'altra bella pagina di Nino Greco dove il racconto minimale degli eventi quotidiani non soffoca mai la vis narrativa condita da valori intramontabili , almeno per chi riesce ancora a riconoscerli.(Bruno Demasi)
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     Conoscevo di vista le vigne della “Pirara” di Don Pasco, quelle partite destre di sole si adagiavano fino all’affaccio sugli aranceti di Peri e del Banco; poi, oltre, la fiumara. Cielo e terra, terra e cielo; le reste sembravano disegnate. In estate e prima del vindigno quei filari formicolavano per i rimbalzi dei raggi di sole e per i colori; in inverno, e dopo la pota, parevano cimiteri di guerra. Nello spiazzo, dove faceva capolinea l’autobus di Puminoro, una sipala di spine impediva l’occhio e faceva mirare solo in parte il vigneto, ma dava sugose more impolverate e un’esigua ombra in quelle stanche attese estive. Quelle more le coglievo, le soffiavo e le mangiavo, come se quello sbuffo di fiato le rendesse mangiabili.
    Il vecchio palmento era lì, sembrava un monumento stanco; da un lato lo lambiva lo stradone, dall’altra parte resistenti tralci di spine lo avvinghiavano fin sopra la cuvertura e si tuffavano dentro da uno squarcio, tra le ceramide, provocato da una trave caduta.
     Ci curiosavo dallo sgagghjo della vecchia porta, un masso enorme e una trave intagliata a spirale erano le uniche cose riconoscibili tra luce filtrata e ombre. Non mi convinceva, non era come quello di Sanzo.
- Mamma, è questo il palmento della nuova vigna?- Chiesi a mia madre mentre aspettavamo l’autobus. Lei mi guardò, non rispose e continuò a chiacchierare con cummare Cuncetta, come a non volermi dare conto. In casa li avevo sentiti parlare della partita di vigna della Pirara.
   Il discorso, poi, venne fuori una sera di novembre:
- Il guardiano della Pirara oggi mi ha mandato una ‘mbasciata informandomi che il padrone ha acconsentito: il prossimo anno la vigna che era di ‘Cola la possiamo fare noi - disse mio padre mentre eravamo a tavola. 

    Era soddisfatto. La fiducia che gli veniva accordata da Don Pasco e dal guardiano lo inorgogliva; si sentiva considerato lavoratore serio e affidabile, ed era certo che quelle viti sarebbero andate a finire in buone mani.
- Questa vigna la terremo per un po’ di anni; il primo lavoro da fare, appena dopo la potatura, sarà quello di piantare i pali che reggono le reste, ne ho già pronti di legno di castagno, dovremo solo appuntirli e sbruschiare la parte che sarà piantata nella terra, poi tireremo il filo di ferro.
    Le sue parole lo dicevano chiaramente: aveva avuto modo di adocchiare già quei filari, e da buon conoscitore delle cose di terra sapeva già cosa c’era d’abbisogno per far rendere al meglio quelle viti.
   Per la nostra famiglia significava un altro carico di lavoro; avevamo già la vigna a Sanzo ed eravamo coloni nelle terre, per le colture estive, dai Generusi; poi c’erano le gabelle di Scriva e l’Acquavona; non poco per una famiglia come la nostra. C’era la necessità e la speranza di guadagnare qualche lira in più con la vendita del vino; e poi quella partita era un’occasione.
    Interessò anche a me la novità; la nuova vigna era ad un passo da dove faceva manovra l’autobus e non bisognava camminare oltre come quando si andava nelle terre o a Sanzo. Immaginavo già: sarei rimasto a casa poche domeniche, come già accadeva. La scuola media m’impegnava il giusto e mio padre non avrebbe fatto nulla per distrarmi dall’obbligo scolastico, ma nelle giornate libere e nei mesi della chiusura sarei partito anch’io per le terre, come ormai accadeva da qualche anno.
   Ero curioso di scoprire la nuova vigna e se vi fossero ficare e cerasare.
   A Sanzo ero ormai di casa e padroneggiavo ogni ‘mbrocca di albero, e di ognuno conoscevo il modo per ‘mpercicarmi fino in cima. Dalle ficare bifare aspettavo lo spuntare dei primi pajuni; conoscevo il loro tempo: “quandu canta la cicala vai e ‘ddunati a la ficara”, diceva mio padre, ma sapevo già che i primi di luglio, in concomitanza della Grazia, si potevano già cogliere i primi fichi bifari. Un giorno gli chiesi perché si chiamassero “bifare”, e lui sorridendo mi rispose:
- non ti sei mai accorto: vanno in frutto due volte all’anno, bifaro significa che liga due volte il frutto, anche se la seconda ligatura è un po’ forzata? Già, tu pensi solo a mangiare - sorrise ancora.
   Ragionai pure che le cerasara majatica di Sanzo dava cerase grosse già alla fine di maggio e la petrujarica si colorava a giugno ed erano più sode, ogni cosa aveva il suo tempo.
   Casa nostra forse era manchevole di tante cose, ma non scarseggiava la freschezza di questi frutti. Nelle giornate in cui alternavo ozio e lavoro fanciullesco capitava di chiedere a mia madre: - mamma,  mi faci fami, a chi ura mangiamu? 

    Lei con gli occhi cercava il sole e diceva: - è ancora prestu, vai e mangiati ‘ddu fica. E così facevo; la frutta colta al momento era spesso colazione, o pranzo o vesperi.
   Non iniziò un buon inverno per le olive, le levantine le avevano ‘rramazzate che ancora erano nozzulu, sia a l’Aquavona sia a Scriva. Una resa di olio povera, ma bastante per onorare la cabeja e il commitu di casa. Mio padre aveva incignato la scaza nelle vigne e mia madre, cirma ai fianchi, coglieva le olive per tutta la settimana poi, al sabato e alla domenica, le portavamo al trappito di Maiolo. Quelle costere obbligavano la raccolta a mano, la scopa di lafrace tornava utile dopo una forte venticata oppure in qualche rasula più ampia. Poi il crivo e tutto nei sacchi di zombara.
   Sulla varda di Rosina potevamo caricare fino a sei misure, due sacchi ai lati e uno sopra.
- Oggi vai tu a scaricare al trappito, la ci sono i machinanti scaricheranno loro le olive nello zimbuni, tu devi solo stare allerta per la rrejuta - disse mio padre. Fui contento.
   Era una delle poche cose che riuscivo a fare: reggere il sacco già legato alla varda da un lato, per non far patire la scecca con il peso sbilanciato, mentre lui legava l’altro, con le crope, dall’altra parte. Al trappito avrei dovuto fare il contrario: mi piegavo con la schiena sotto il sacco dal lato opposto a quello che veniva slegato e scaricato, poi scaricavano quello retto dalla mia schiena. Rosina restava immobile, buona e remissiva; mi sopportava, a volte subiva qualche mia prepotenza e percepivo la sensazione che anche lei usasse tanta bontà con me.
   Mio padre mi sorprese con la decisione di farmi fare i viaggi; fu perché da qualche tempo il ginocchio gli era tornato a gonfio e a fargli male, e mandando me, per lo scarico delle olive, voleva risparmiarsi lunghi tragitti a piedi; il medico gli aveva consigliato il riposo, ma non voleva né se lo poteva concedere. Eravamo in piena annata e poi le vigne gli stavano assorbendo tutte le forze.
   La guerra gli aveva lasciato una dolente eredità e un perenne ricordo, anche gli ufficiali medici dell’ospedale militare di Salerno ci avevano messo del loro: gli avevano ingessato la gamba senza preoccuparsi dell’allineamento della tibia. L’infortunio però non gli impedì d’imbarcarsi a Bari, direzione Durazzo, per trovarsi poi ricacciato, insieme a coloro che dovevano spezzare “le reni alla Grecia” in Montenegro, a combattere contro i partigiani montenegrini, insorti contro l’invasione italiana.
- Appena vedi spuntare compare Rocco, dal violo di là della Fejusa, chiamami che carichiamo, poi andrai via con lui fino al paese - mi comandò.
   Voleva che il primo viaggio con la scecca carica di olive lo facessi insieme a compare Rocco, lui, con la sua presenza mi avrebbe rassicurato fino al trappito. 

   Compare Rocco faceva il mulattiere di mestiere, aveva una piccola vatica di due muli e tutti i giorni passava nel violo che lambiva le costere di Acquavona, a ogni passaggio, sia all’andata sia al ritorno, trovavano il motivo di fermarsi per qualche breve chiacchiera; nelle brevi soste nei viaggi pomeridiani ci scappava anche il bicchiere di vino; e di vino ne teneva sempre qualche bottiglia interrata in un angolo della barracca, proprio per i mulattieri e per gli amici che passavano di là.
   Da quel violo ci passavano in tanti e con tutti c’era il saluto riguardoso; se capitava che qualcuno passasse nel mezzogiorno quando c’era la truscia aperta con qualche jhanco di pane e la camella, davanti al fuoco dentro la baracca, ripeteva l’invito: - compare, favorite!
   Una volta mi trovai a chiedere:
- Patri, come mai inviti tutti per un bicchiere di vino o a favorire?
- Sono persone amiche, e quando c’è terra sotto il sole benevolenza degli altri è ricchezza; se fossi passato io dalle loro terre avrebbero fatto lo stesso.
   Mi piaceva quella solennità del rispetto tra gli uomini e ne ebbi riprova quando una mattina, arrivati a l’Acquavona dopo che la notte il vento aveva soffiato deciso provocando la caduta di una buona mano di olive, mi accorsi che il violo che attraversava la nostra cabeja era stato spazzato con un ramo di lafrace, mi venne spontaneo chiedergli chi avesse potuto fare quel lavoro. - Il primo mulattiere che è passato - mi rispose - ha preso la rrama di lafrace e ha scostato le olive per non schiacciarle e poi è passato, evitando così che altri potessero calpestarle.